A parlare di Kurt Cobain all’alba del 2015 si rischia di fare quello che egli stesso chiamerebbe (e ha chiamato, in un mixtape) “Montage of Heck”, un montaggio “del cavolo”. A occuparsi del film è Brett Morgen, un documentarista di professione che proviene dallo stesso sostrato generazionale del suo oggetto/soggetto d’indagine. Si può far riferimento a “un’indagine”, quando si lavora sulla più grande (più famosa, più sovraesposta) icona pop (del rock) degli ultimi vent’anni? No.

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Kurt Cobain: sempre osservato, da sempre indagato, outsider in un underground di outsider. Brett Morgen tenta con la retrospettiva, animata di buone intenzioni (gli excursus sulla figlia Frances, che del padre sa poco e niente, o la possibilità di mettere le mani su footage esclusivo e privatissimo), e affastella casualmente filmati casalinghi inediti, interviste da usare nei tempi morti, testimonianze di chi gli gravitava attorno, inserisce la rielaborazione in stop-motion degli scritti diaristici (anche quelli, sovraesposti) e li plasma in virtù di un presunto percorso psicologico da ripercorrere, eludendo quasi completamente l’aspetto artistico della storia.

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Eppure, a chi quei diari li ha letti, pare che “il senso” vada ricercato altrove, e di certo non in una traduzione letterale, magari utilizzando scritti irriverenti e spesso ironici in modo didascalico. Cobain scrive “I kill myself” ripetuto una ventina di volte e Morgen come lo sfrutta? Per preannunciarne il suicidio: errori grossolani di calcolo e lapalissiane ripetizioni, laddove la sola immagine potrebbe essere verbo. Più originali e autentici paiono invece i segmenti in cui il regista inserisce una mini-storia in graphic novel e anima e colora disegni e bozzetti.

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La prima parte del documentario, incentrata sul periodo infantile/adolescenziale dell’artista, riesce a gettare uno sguardo avulso da paradigmi, come l’amore per Courtney e il rigetto della fama, che suonano stantii quanto imprescindibili. Ed è in questo primo tempo che emerge quel Kurt “ipersensibile” a cui si fa cenno, ed emerge in tutta la sua (troppa) umanità, grazie ad un atteggiamento filmico sobrio e intimista. A incombere, purtroppo, come fil rouge pervasivo, c’è un senso da postfazione luttuosa francamente evitabile.

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L’impressione è che, nell’intento onnicomprensivo, sia sfuggito l’essenziale. Morgen parla ancora del Fenomeno, poco dell’Uomo e incappa nei medesimi meccanismi di mitizzazione. In questo senso Montage of Heck è un documento importantissimo, perché è spia di sé stesso: svela come sia impossibile evitare lo spettacolo nello spettacolo quando si guarda alle icone, pur ricercando disperatamente l’anti-spettacolarizzazione.

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Montage of Heck viaggia col freno a mano tirato, pur nelle sue scelte interessanti e coraggiose, come Kurt che parla in prima persona o la mancanza di una voce off da cinegiornale. Opera coraggiosa, certo, ma che avrebbe potuto esserlo di più: più delirante e distruttiva, più Nirvana. L’auspicio è che, calato il sipario sulla rockstar, si possa iniziare a parlare di come (e perché) il Kurt Cobain artista abbia concentrato in sé le tendenze del ventennio precedente anticipando, inaugurando e cambiando definitivamente quello successivo. Esaurite le indagini sulla personalità, gli sguardi ossessivi fini a se stessi, le intrusioni familiari, si potrebbe guardare alle emozioni in funzione della musica. Come “All Apologies”a chiudere, commuovente epilogo che, in quanto musica, parla già per se stessa.



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