A voi magari fa ridere che il Paese che ha inventato la schiavitù dei neri e la Fanta al gusto petrolio sia alla guida dell’Occidente. A me no. Anzi, applaudo la scelta. Ho sempre la tentazione di prendere l’argomento alla larga perché ogni volta che lo dico troppo in fretta c’è almeno una persona che crede la stia prendendo in giro e che io sia anti-americano, ma, tagliando corto, molti altri avrebbero fatto molto peggio alla guida dell’Occidente. Nasciamo in Italia, nasciamo in Grecia, in Spagna e in Francia e con tutto quello che potremmo decidere di fare decidiamo di plasmare i nostri desideri, i nostri gusti artistici e i nostri acquisti sul modello americano. Fingiamo di capire Stati Uniti, ci illudiamo di conoscerli in ogni microscopico dettaglio, di averceli nel sangue.
L’America è il nostro migliore amico immaginario.
Sapete come funziona: in Italia per disdire un abbonamento telefonico devi mandare un recesso per iscritto tramite raccomandata a.r. entro 24 ore dall’invio di un fax con allegata fotocopia di documento d’identità e codice fiscale. Succede però che Telecom, Wind, Vodafone, Tre, Teletu, Teletumadre, Teletusorella, Teletuziaquellapelata non solo fingono di non aver ricevuto nessuna richiesta e ti pompano le fatture con servizi che non volevi, abbonamenti che non hai stipulato e offerte fasulle, ma vendono tutte le tue informazioni a call-center criminali che tentano con fantasiosi giochi di parole di farti sottoscrivere contratti improbabili dai quali esci soltanto se hai un passaporto falso e sei disposto a rifarti una vita in Moldavia.
In America queste cose non succedono mica. In America ci sono le sparatorie nei licei e le coltellate durante i Black Friday, ma le compagnie telefoniche offrono un impeccabile customer service. Viva gli Stati Uniti d’Ipocrisia – uno dei Paesi con più regole in assoluto e quando dico “con più regole” intendo il più corrotto di tutti.
Lo so, lo so. Questo è uno degli incipit più profondamente, irrimediabilmente, ignorantemente razzista che mi sia capitato di scrivere da un bel po’ di tempo a questa parte. Ma personalmente continuo a essere dell’idea che la maggior parte dei mali del nostro Paese nasca dalla nozione che qui tutto debba fare schifo perché all’estero ogni cosa funziona perfettamente. Nessuno si prende il disturbo di provare a cambiare le cose a Bagni di Tivoli o a Rozzano o a Matera perché tanto è inutile, perché raggiungere la qualità di vita degli Stati Uniti è impossibile.
Detto in altre parole, il mondo che ci siamo apparecchiati è un posto veramente, veramente brutto. E già vi immagino, saccentelli che non siete altro, a dire “sì lo sappiamo“, così metto le mani avanti e dico subito “ecco, ragazzi, no, più brutto”.
Il mondo in cui viviamo, con estrema fatica, è duro e freddo e spietato e modella a sua immagine e somiglianza le persone che lo abitano; è lento, è faticoso e, sopra ogni altra cosa, è ingiusto. Ed è curioso che proprio uno dei luoghi più amati dagli adolescenti Occidentali, un Paese che ci ha ripetuto per anni che un giorno saremmo diventati tutti rockstar e divi del cinema, sia al contempo un luogo brutto, sporco e cattivo che trova la sua dimensione solo quando deve bombardare luoghi altrettanto brutti, sporchi e cattivi.
Sei un nerd? Allora ti avranno fatto credere che se fossi nato in America ora staresti assemblando pc in garage per diventare un giorno, quasi per caso, un filantropo mega miliardario pieno di ville in California. E tu invece sei nato a Civitavecchia e tuo padre fa l’idraulico e tua madre fa la spesa all’Eurospin per risparmiare sul prosciutto crudo.
Ora, quello che devi sapere, è che ti hanno mentito. Non è vero che i nerd americani finiranno tutti a lavorare per Facebook o per Amazon. Perché è vero che a Oriolo dei Fichi non arrivano i Freccia Rossa, ma nel Wisconsin l’incesto è il pilastro su cui poggia la famiglia americana da ormai centoquarantanni. Coloro, scandalizzati, che si rifiutano di credere alle mie parole dimenticano che gli americani sono bambinoni viziati con più zucchero che sangue dentro le vene e che gli Stati Uniti non sono affatto un paradigma di modernità e infinite possibilità, dove tutti hanno successo e tutto funziona.
Questo lungo incipit serve per arrivare alla docu-serie Making of a Murderer, che mette in bella mostra l’America vera: vacche, tori, fango, crostate di zucca, incesti e sceriffi violenti, l’America che fa sembrare Quarto Oggiaro il centro di Helsinki – e cioè il 99% degli Stati Uniti fuori da quella nicchia che il mondo chiama New York.
Mi spiego.
Stephen Avery è un poveraccio del Wisconsin, un handicappato sociale, emarginato dei bassifondi che nel 1985 viene condannato per una brutale aggressione. Nel 2003, dopo 18 anni di carcere, Stephen viene scagionato grazie a un esame del DNA, che dimostra la sua totale innocenza. Nel 2005 scompare una ragazza e Stephen viene condannato per omicidio. Di questo parla Making of a Murderer – documentario in 10 episodi prodotto da Netflix che è anche e soprattutto un ritratto spietato della classe sociale americana.
Le registe Moira Demos e Laura Ricciardi hanno documentato questa brutta storia (vera) raccogliendo materiali d’archivio e intervistando le persone più vicine al caso per esaminare i sospetti di condotta impropria da parte delle forze dell’ordine, l’inquinamento delle prove e la coercizione dei testimoni – elementi che portano a pensare che Stephen sia, mentre tu leggi questa frase qui, in carcere ingiustamente e che “la giustizia” non sia nient’altro che uno strumento utilizzato dal sistema americano per piegare chiunque desideri.
Making of a Murderer è uno dei documentari più cupi, soffocanti e drammatici che mi sia capitato di vedere da un bel po’ di anni a questa parte. Regia, fotografia, non è che ci sia molto da dire. Qui non c’è nulla di glamour, questo non è The Jinx della HBO. Questo è Netflix e questo è un documentario spezzettato in dieci episodi, che punta su immagini brutte piene di contenuto. Ovvero, il contrario di quello a cui siamo abituati guardando l’America in Tv: immagini belle prive di significato.
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