Date tempo al tempo e vedrete che quella del 2016 sarà ricordata non come l’estate di Pokémon Go ma come quella di Stranger Things. La serie Netflix, infatti, va oltre il dato stilistico più vistoso, quello dell’omaggio agli anni ’80, mostrando piglio autoriale, e ricchezza narrativa, nel raccontare una storia senza tempo in cui il soprannaturale e il fantascientifico si incontrano con la prosaicità della vita in una cittadina dell’Indiana: dall’unione si sprigiona quel senso di meraviglia che permea l’intera serie.
Lo Spielberg (e la Amblin) degli anni ’80, Stephen King, John Carpenter sono sotto gli occhi di tutti ed esplicitamente chiamati in causa dagli autori in ogni singola intervista. Allo stesso modo è facile sentire l’eco dei vari Explorers, D.A.R.Y.L. e di tutti gli altri film del filone fantascientifico incentrati sulle avventure di adolescenti la cui amicizia si rinsalda nella comune passione per la scienza e la tecnologia. Per quel che mi riguarda ho rivisto molto anche di Fringe, l’episodio Inner Child per esempio, ma anche Subject 13 e Jacksonville (questi ultimi due non a caso ambientati negli anni ’80), così come nel rapporto tra El e il Dr. Benner ho sentito l’eco degli esperimenti di Mr Secretary sulla nostra Olivia in grado di attraversare i “mondi”. Altri, nelle appassionanti sessioni di gioco dei ragazzi, avranno rivissuto i loro pomeriggi (o intere nottate) in compagnia di Dungeon and Dragons e, se non esistessero testimonianze dirette e prove fotografiche dell’esistenza dei Duffer Brothers, penserei ad Abed di Community quale autore ideale della serie.
Ma la caccia alla citazione, il confronto su quale tributo, film o elemento fashion risuona con più forza nella nostra memoria sono attività che non devono trarre in inganno. Gli anni ’80 di Stranger Things non sono una necessità narrativa come, per esempio, lo sono per Halt and Catch Fire la cui storia ha motivo di esistere solo originandosi e contestualizzandosi in quegli anni. In Stranger Things gli eighties non sono una mera operazione nostalgia, un riuscito tentativo di imitazione o riproduzione del sentore della propria infanzia: Matt e Ross Duffur sono nati nel 1984, per il loro decimo compleanno il cinema offriva Pulp Fiction, Ace Ventura, Natural Born Killers, per citarne alcuni e, se ci pensate, il 1983 di Hawkins non è poi molto diverso come aspetto dal 2006 di Fargo (prima stagione).
La forza della serie è nell’universalità del temi trattati: il legame tra i ragazzi (“I never had any friends later on like the ones I had when I was twelve. Jesus, does anyone?” Stand By Me), la perdita di un figlio (Joyce e Hopper), il desiderio di appartenenza e normalità (Eleven), la lotta per la sopravvivenza al liceo (“We survived” “It was a hell of a battle” “Not the battle. High School” Buffy), la spinta a sondare l’universo in cui viviamo (l’organizzazione Governativa come esempio negativo di intendere e perseguire la conoscenza, contrapposta alla curiosità scientifica dei ragazzi come esempio positivo per la via alla comprensione, e non a caso i ragazzi citano Carl Sagan).
Stranger Things non parla dunque al bambino che è in noi – volendo, anche – ma chiede la nostra attenzione di adulti perfettamente formati. La serie ci intrattiene con una storia senza tempo, e quindi senza età, in cui protagonisti appartengono a tre generazioni diverse: gli adolescenti, i liceali e gli adulti propriamente detti. Senza dubbio i ragazzi(ni) sono la vera attrazione del racconto grazie al riuscitissimo lavoro di casting, e grazie alla capacità degli autori di rendere interessanti e coinvolgenti le dinamiche di un pugno di dodicenni, ma l’ottimo risultato finale è la conseguenza dell’unione delle tre linee narrative e investigative, tra mondano e realtà altre, portate avanti dai tre gruppi. Se i liceali sono utilizzati nell’arco narrativo più convenzionale e meno interessante, almeno finché non entrano direttamente in contatto con l’elemento soprannaturale, i due adulti protagonisti, Winona Ryder e David Harbour, svolgono un lavoro incredibile con i loro personaggi: Joyce colpisce subito per la sua emozionante tenacia, contro tutto e tutti logica inclusa, mentre Hopper è una scoperta, puntata dopo puntata, grazie anche a una saggia e puntuale gestione dei flashback che svelano la backstory del personaggio.
L’evento che mette in moto l’intera storia viene raccontato in pochi minuti, prima dell’opening. Al termine di una lunga sessione di gioco a D&D, i quattro amici protagonisti si salutano ma uno di loro, Will, scompare nel proverbiale nulla: a questo punto lo spettatore intuisce già che l’incidente iniziale accaduto in un laboratorio di ricerca è direttamente collegato alla sorte del ragazzo. I toni passano rapidamente, ma con fluidità, dalle note horror della prima sequenza a quelle più calde e scanzonate nella cantina di Mike, per poi tornare a sottolineare e amplificare un’atmosfera inquietante e oscura. Questa capacità di passare agevolmente da un registro all’altro, a volte riuscendo anche a far coesistere nella stessa inquadratura elementi contrastanti (le luci di Natale che si accendono dando speranza e al contempo manifestando l’aspetto sinistro della sparizione di Will) è uno dei punti di forza di Stranger Things che in sole otto puntate riesce a portare un po’ di magia nella nostra vita di spettatori.
Stranger Things tornerà per una seconda stagione.
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