Un inizio promettente, sull’insinuante musica di Alexandre Desplat che accompagna l’ingresso in una nuova vita di Tom Sherbourne (Michael Fassbender). Eroe di guerra, alla fine del ’18 sceglie – disgustato dall’orrore bellico che, chiaramente, l’ha segnato e non poco – di isolarsi facendosi assumere come guardiano del faro di una sperduta isola australiana. 

Una scelta, lo si capisce subito, che non si rivelerà felice. Il cielo plumbeo e le ombre che la regia di Derek Cianfrance getta su ogni inquadratura sono solo uno degli indizi. Il matrimonio con Isabel (Alicia Vikander) sarà colmo d’amore, ma il desiderio di un figlio che non arriva spingerà la coppia a una decisione estrema.

Dopo i consensi ricevuti con Blue Valentine, Derek Cianfrance ci prova col dramma melò trasportando sullo schermo il romanzo di M.L. Stedman.

Il vento che scuote l’isola dove Tom si fa custode della luce che deve guidare le navi lungo le burrascose coste oceaniche sembra agitare anche due protagonisti dai tormenti antitetici. Lui non si perdona i delitti di guerra. Lei, sotto la grazia della figlia di una borghesia di provincia, si rivela un sottile filo d’acciaio: gli aborti sono quasi una colpa da sotterrare. Esattamente come i corpi senza vita dei figli persi. O come il cadavere dell’uomo che una barca porta sull’isola in cui Tom e Isabel vivono in una solitudine quasi spettrale. Col cadavere, però, una neonata. Viva. E la volontà di Isabel, segnata dalle due gravidanze finite male, piega gli scrupoli di coscienza del marito.

La potenza visiva del racconto di Cianfrance è indiscussa. La poco ospitale natura della costa, così rocciosa e inaffidabile, ha fascino, ma anche qualcosa di terrorizzante. E quando il dramma esplode, la regia la attraversa amplificandone al massimo la portata spettacolare. Fassbender e la Vikander reggono con innegabile impatto drammatico (soprattutto lei) il sottile, quasi perverso gioco della storia – lei con una maternità ferocemente voluta, lui incapace di dimenticare davvero la morale che sua moglie ha calpestato.

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E, più che la casa dagli scuri colori legnosi, è proprio quel faro dagli echi metallici che si riverberano sulle pareti intonacate di bianco a fare da contraltare perfetto al loop psicologico di Tom, un uomo che trova l’amore e le gioie della famiglia proprio mentre cerca l’isolamento come cura al malessere interiore.

L’equilibrio dei sapori, nella ricetta filmica di Derek Cianfrance, viene meno quando le carte di scoprono e la tensione, in qualche modo, va sciolta. La madre che ha perso marito e figlia in mare riemerge, terrena, per niente onirica. E il segreto, per l’anima ferita di Tom, è troppo pesante.

È qui che la mano del regista scivola. I tempi della narrazione si allungano impercettibilmente e, coperti da una sottile patina più dolciastra che acre, lasciano allo spettatore la sensazione che le promesse dell’incipit non siano state rispettate.

Lacrime, ovviamente, ma anche colpa, castigo e perdono. Quanto spazio c’è per la redenzione? Per rispondere davvero, forse, ci voleva più coraggio. Soprattutto il coraggio di non ammorbidire, sciogliendola in un sentimentalismo a tratti prevedibile, una vicenda i cui risvolti torbidi potevano essere una risorsa da sfruttare, non semplici accenni da mostrare e poi smussare.

Notevole la livida fotografia di Adam Arkapaw. A The Light Between Oceans, dopotutto, resta l’estetica: chapeau, almeno, a una regia che non ha paura di mostrare la bellezza di una modalità di racconto classica, in anni in cui il cinema va alla ricerca di espedienti narrativi che vogliono sorprendere ma che, in realtà, spesso annoiano.



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