Se c’è una ragione per apprezzare Crisis in Six Scenes, con tutta probabilità, questa non risiede nei sei episodi scritti e diretti da Woody Allen. La serie televisiva, realizzata per Amazon, a fronte di “un’offerta che non si poteva rifiutare”, costringe il regista a fare i conti con un medium che non solo dimostra di non conoscere per nulla, ma che conferma anche la sua inettitudine alla narrazione transmediale.
Il progetto, che, ambientato alla fine degli anni Sessanta, narra la folle settimana dei signori Muntzinger (Woody Allen ed Elaine May) alle prese con una giovane latitante dissidente (Miley Cyrus) introdottasi nelle loro vite a causa di un’unica e fatale distrazione – quella di dimenticare di attivare l’allarme antifurto e di lasciare scoperto il nervo delle proprie ipocrisie – sembrerebbe interessante e potenzialmente coinvolgente. Tuttavia, a confrontarsi con la tv – medium negli anni più volte screditato – Woody Allen fatica a trovare una dimensione temporale più che spaziale.
Funziona l’idea di sigillare (quasi interamente) la vicenda tra le quattro mura di casa, una trovata che ben esprime la chiusura mentale e la vita “al riparo” dell’anziana coppia borghese protagonista, mentre risulta inadeguata la narrazione, qui forzata dalla rigida scansione televisiva, che obbliga la storia ad “andare in apnea” ogni ventitre minuti (la durata di ogni singolo episodio). Inadeguata soprattutto perché la vicenda – così come lo stesso Allen – non sa adattarsi alla televisione, non rispetta una costruzione episodica, ma si offre allo spettatore come un film pensato nel suo insieme e poi suddiviso arbitrariamente in sei parti.
Ne esce fuori un prodotto che si sviluppa in lunghezza, esattamente come un lungometraggio, forte di una tradizionalissima struttura in tre atti che, inevitabilmente, viene sformata da una confezione televisiva a volte troppo stretta – soprattutto quando si tratta di creare la giusta atmosfera – a volte abbondante – quando invece si tratta di fare il punto sulla scena, che finisce per essere oltremodo dilatata e indebolita. Il risultato è una sit-com scomposta, dal ritmo sincopato, caratterizzata da imprevedibilità – un’imprevedibilità negativa – in cui non si sa dove e quando ridere, ascoltare o osservare. La regia – solo cinematografica e mai televisiva – tipicamente alleniana, nel suo essere libera dai dogmi di una messinscena standard o di genere, non aiuta. Crisis in Six Scenes, infatti, invece di raccontare una crisi montante in sei momenti, si limita a mostrare, in una sola grande scena, tanti piccoli qui pro quo senza possibilità né di sviluppo, né di soluzione. Si ride poco ma di gusto, ci si annoia parecchio ma senza che questo comprometta totalmente la visione, grazie anche alla vis recitativa dei protagonisti, tutti perfettamente in (dis)parte.
A risultare paradossalmente funzionale e interessante è, però, proprio il caos vigente nei rapporti tra i personaggi e scompaginante i numerosi punti di vista, che ben descrive non solo l’illusorietà del sogno americano, giunto negli anni della guerra del Vietnam a una prima e pesante battuta d’arresto (poi ritornerà in auge), ma anche l’ipocrisia congenita di un popolo, quello statunitense, incapace di farsi carico delle proprie responsabilità sociali. C’è qualcosa di molto comunicativo nella caotica inconcludenza di Crisis in Six Scenes che finisce per suggerire più di quello che, coscientemente, vuole raccontare. Woody Allen, così come il suo personaggio Sidney Muntzinger, ammette di non saperlo fare, di non sapersi esprimere attraverso la televisione, di non saper smistare la superficialità per renderla complessa (nel cinema si fa il contrario, concentrare la complessità per renderla accessibile a colpo d’occhio), mostrandosi così, sul piccolo schermo, come un autentico filosofo da strapazzo, o come il più classico degli americani medi…
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