Considerato all’unanimità un prodotto eccezionale, laddove (in patria) ha ottenuto premi e successo, in Italia, seppur considerato un piacevole e delicato coming of age, il film pare non aver mandato in visibilio le platee nostrane. Lady Bird (Greta Gerwig, 2017), candidato tra i più accreditati agli Academy Awards del 2018, sembra essere il classico piccolo film dalla portata simbolica devastante – almeno per quanto riguarda la richiesta ideologica del periodo, come accadde per Moonlight (Barry Jenkins, 2016) l’anno scorso – in cui una giovanissima donna, con invidiabili forza e coraggio, si fa strada tra le strettoie esistenziali – o i colli di bottiglia – che vedono arrestarsi i percorsi di tanti adolescenti dalle scarse possibilità sociali ed economiche, dalle invalidanti debolezze caratteriali, dalle evidenti carenze fisiche o, last but not least, penalizzati dal solo fatto di appartenere al genere sbagliato: quello femminile.

Il percorso mostrato in Lady Bird – chiaro fin dal titolo – è quello di un’entità (psicologicamente e fisicamente) informe che, contemporaneamente alla sua affermazione identitaria, tenta di spiccare il volo in un mondo difficile, partendo dalle condizioni più disagevoli e più distanti dalla meta. Christine McPherson (Saoirse Ronan) – la Lady Bird del titolo – è una ragazza come tante, disinteressata del mondo e delle sue regole, che non ha altro desiderio se non quello di portare a termine tutte le esperienze tipiche della sua età.

Non sa, come tanti suoi coetanei, che una volta bruciate le tappe e superati gli (apparentemente) enormi gli ostacoli dell’adolescenza ogni inconveniente apparirà in lontananza tanto piccolo quanto insignificante, costatando che quella che gli pone il futuro è una domanda più ingente e quella che gli fa il mondo è una richiesta ben più scoraggiante: affermarsi omologandosi. Per una donna, per giunta figlia di immigrati, povera, anticonformista e lontana dai riconosciuti standard di bellezza statunitensi, appare una faccenda piuttosto complicata. Se a tutto ciò si aggiunge che Lady Bird è stato scritto e diretto da una donna regista esordiente, la talentuosa Greta Gerwig, allora non ci saranno più dubbi sui motivi della presenza di un film del genere nella categoria più ambita della cinematografia americana.

Ciò, naturalmente, non significa che Lady Bird sia un “brutto film” o un prodotto derubricabile come anonimo e insignificante, ma è senz’altro il film giusto al momento giusto, requisito che lo rende perfettamente idoneo a concorrere nella categoria “miglior film” (che raduna i prodotti più significativi della stagione). Forse non avrà la solidità compositiva dello splendido Brooklyn (John Crowley, 2015) – film per certi versi affine, con il quale condivide non solo la protagonista ma anche il tema dell’emancipazione – e nemmeno la potenza eversiva delle tragicommedie di Noah Baumbach – il compagno di vita da cui la Gerwig pare aver appreso la lezione – del quale si intravede l’ironia ma non la brillantezza della messinscena, eppure Lady Bird possiede qualcosa che altri film simili non possono vantare: la genuinità. La sceneggiatura, con la sua struttura basic e il suo flusso narrativo privo di plot point e retorica di genere, affascina per la sua naturalezza e vivacità, in cui tutto vale timore e frenesia, anche un amplesso veloce tra le braccia di uno stronzo qualunque da dimenticare nel giro di un’ora.

Lady Bird ha il pregio di essere assolutamente contingente, vivido mentre lo si segue, estremamente nervoso, anche se inevitabilmente dimencabile. E’ un po’ come recitava la Claire del meraviglioso Elizabethtown (Cameron Crowe, 2005): “Impossibile da dimenticare ma difficile da ricordare!”



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