Dal momento in cui è andata in onda Bodyguard ha fatto parlare di sé per essere, a sorpresa, il drama più visto degli ultimi dieci anni stracciando nel mentre la diretta concorrenza di Itv che proponeva Vanity Fair. Dopo l’iniziale pieno di ascolti, la serie – con protagonisti l’unico vero King of the North Richard Madden e una superba Kaley Hawes – ha continuato a far registrare numeri record anche sul player BBC.
Gli spettatori hanno seguito con passione lanciandosi, tra una puntata e l’altra, nell’elaborazione di teorie e contro-teorie nel tentativo di decifrare le intenzioni di Jed Mercurio, l’autore della serie spy-thriller, con erotismo quanto basta, che non si è risparmiato in fatto di red herring e plot twist piazzati sì in modo spregiudicato, ma con l’acume di chi sa bene come sorprendere e depistare senza sacrificare la tenuta narrativa della storia solo per mettere a segno qualche colpo di scena ad effetto. Il vero asso nella manica, però, è l’alchimia tra i due protagonisti.
Tanto successo è dunque meritato? La risposta breve è sì, quella più estesa e argomentata la troverete a partire dal prossimo paragrafo ma è una lettura che consiglio a chi ha già visto la serie.
Richard Budd (Madden) ex veterano reduce da Iraq e Afghanistan, ora ufficiale di polizia, è assegnato come guardia del corpo e supervisore della sicurezza personale di Julia Montague, la home secretary (il ministro degli Interni nel Regno Unito). Budd si è distinto per aver prontamente sventato un attentato terroristico, ma la sua tenuta mentale è a rischio per via della sindrome da stress post traumatico di cui soffre e che tende a nascondere o negare a quasi tutti per poter continuare a lavorare.
La carriera politica di Julia Montague parla chiaro, ha sempre votato a favore degli interventi militari, e ora che la minaccia alla sicurezza nazionale proviene da cellule terroristiche è decisa a far passare una legge che conceda maggiori poteri al governo in fatto di intercettazioni e raccolta dati, e questo nonostante la sua proposta incontri forti obiezioni per via della limitazione della privacy che comporterebbe, unitamente al timore di una inevitabile ingerenza nella vita dei cittadini. La politica della home secretary non è, dunque, solo invisa a Budd che ha vissuto sulla sua pelle il risultato delle scelte politiche interventiste, ma anche da molti altri, a iniziare dal primo ministro inglese che percepisce la propria leadership minacciata da una donna così ambiziosa e determinata
Da una parte abbiamo Budd, un militare addestrato a non questionare gli ordini dall’alto che si ritrova a dover assolvere diligentemente al compito assegnato, anche se questo vuol dire proteggere un politico di cui disprezza le scelte, dall’altro troviamo una donna come Julia Montague abituata a dettare la tabella di marcia propria e altrui i cui spostamenti, le scelte quotidiane, perfino il sostare in un punto piuttosto che in un altro, sono sottoposte al veto o all’approvazione della sua guardia del corpo.
Da questa situazione Hawes e Madden riescono a trarre il massimo. Lui all’inizio sembra un bambolotto un po’ stolido, anche se le apparenze ingannano e questa prima impressione rende più gustosi quei guizzi che non ti aspetti da un tipo del genere, mentre Keeley Hawes riesce a dosare con il bilancino ambizione, calcolo e seduzione.
Nel momento in cui la serie tiene saldamente in pugno i propri spettatori, ecco che Mercurio mette in campo una terza puntata – su sei – che ha tutti i crismi di un season finale: altre serie avrebbero impiegato un’intera stagione per arrivare a quel punto capitalizzando e mettendo in cassaforte l’attenzione del pubblico fino alla stagione successiva, ma l’autore qui compie una scelta diversa e dalla puntata seguente la serie cambia format diventando, nonostante il tema del terrorismo, della videosorveglianza, degli intrighi di potere, e al netto dei fuochi d’artificio narrativi, il più classico dei whodunnit.
Intorno ai due protagonisti, il vero selling point della serie, iniziano ad emergere più distintamente tutti i personaggi che fino a quel momento erano rimasti relegati sullo sfondo o in posizioni subalterne. La minaccia terroristica si innesta su un clima complottistico in cui è difficile distinguere burattini da burattinai: tutti sembrano avere un’agenda da perseguire, tutti hanno ottimi motivi per essere coinvolti in un intrigo terroristico, ma allo stesso tempo tutti hanno ottimi motivi per cercare di districare una matassa fatta di fili le cui estremità sono tenute in mano dalla home secretary, dal capo della polizia, dal capo dei servizi segreti, dal primo ministro, e perfino il comportamento di Budd a volte suscita perplessità.
In Bodyguard giallo, poliziesco, thriller e (fanta)politica si danno vicendevolmente il cambio per tracciare un percorso di avvicinamento alla sesta e ultima puntata chiedendo, nel mentre, molto agli spettatori: più di una volta la serie rischia di spendere incautamente il credito fino a quel momento accumulato ma, nonostante gli azzardi e qualche piroetta narrativa un po’ troppo avvitata, possiamo parlare di uno spettacolo adrenalinico di grande intrattenimento che ripaga dell’investimento emotivo degli spettatori.
La serie non aveva il sapore del grande evento anche se era moderatamente attesa per via dell’ottimo seguito conquistato dall’autore con il suo Call of Duty e per via del cast di livello, ma a conti fatti, e meritatamente, lo è diventata al punto che si parla di una seconda stagione. In questi casi l’unico commento possibile è affidato alla speranza di non vedere rovinata una serie con una nuova stagione non necessaria vista la perfetta chiusura del cerchio tracciata dalla prima.
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