Barry Keoghan a torso nudo sdraiato nell'erba, in un fotogramma del film Saltburn.

La regista di Una donna promettente torna con Saltburn, un film pensato per suscitare reazione forti, ma che a ben vedere è una vuota provocazione.

Tra le tante uscite streaming e cinematografiche di questo Natale, Saltburn è quella che tiene banco da giorni sui social network, dove è un continuo fuoco di fila di meme, battute, stroncature, lodi, clip d’interviste e riflessioni sul nuovo film di Emerald Fennell. Il lungometraggio è perfetto per ricoprire questo ruolo di “film del momento da vedere e commentare”, dato che contiene tutta una serie di scene e scelte volte a suscitare una reazione forte, di pancia.

Saltburn meritava la sala, ma è pensato per i social

In Italia non abbiamo potuto vederlo in sala, come invece avvenuto in altre nazioni. Ci abbiamo perso noi, perché nel suo secondo film da regista e sceneggiatrice Emerald Fennell non è più costretta a girare in ristrettezze di tempo e di mezzi, come avvenuto al suo debutto. Saltburn ci porta nel mondo classista e snob dei college inglesi, facendoci esplorare con gli occhi di estraneo il mondo degli inglesi più abbienti, istruiti, isolati dal resto della società. Il titolo rimanda all’enorme maniero dove il protagonista Oliver Quick (Barry Keoghan) viene invitato a trascorrere l’estate dal compagno di corso Felix (Jacob Elordi). Oliver è irresistibilmente attratto dall’amico fino a divenirne ossessionato, ma imparerà ben presto che i propri destini di outsider nelle stanze dell’antico maniero sono sempre appesi a un filo, al capriccio di un momento e alla comprensione delle bizzarre relazioni che uniscono i membri della famiglia e gli altri ospiti.

Il lussuoso mondo in cui vivono Felix e la madre Elspeth Catton (Rosamund Pike), i vestiti di Valentino e grandi marchi che indossano a cena, le fattezze cesellate e il fisico statuario di Elordi, la nudità consapevole e il continuo mutare dello sguardo di Barry Keoghan meriterebbero il grande schermo. È paradossale come il precedente Una donna promettente, realizzato con mezzi di fortuna, sia passato al cinema mentre un film di tutt’altra levatura e ambizione, candidato ai Golden Globes, arrivi solo sullo schermo di casa.

Una vuota provocazione giovanile

Detto questo, Saltburn sembra proprio ideato per produrre una fiammata di dibattito all’uscita e poi scemare nel disinteresse. È quel genere di progetto da vedere in un finestra temporale risicatissima per far parte del dibattito cinefilo del giorno, ma che alla lunga intrattiene solo considerandone e soppesandone i difetti. Questo perché è una provocazione, sì, ma vuota, che non ha niente da dire o fare al di fuori di quella scossa che vuole provocare. Gli inglesi lo definiscono shock value, il valore intrinseco dello sbigottimento provocato da qualcosa pensato proprio per suscitare quella reazione. Una reazione che è insomma il fine ultimo, non una effetto o danno collaterale.

Shock value è un’espressione dal significato abbastanza negativo, che si adatta pienamente a questo film. I suoi estimatori vi diranno che parla di politica, che denuncia il classismo della società inglese, che guarda dentro i suoi personaggi rivelandone perversioni e giochi di potere. I suoi detrattori vi diranno invece che il progetto sposa il punto di vista degli ultra-ricchi, che è eccessivo e amorale in ciò che mostra, tra nudità e manipolazioni varie. La verità sta non nel cosa mostra, ma in come lo fa.

Saltburn è sì ambientato in una società classista per antonomasia come quella inglese e sì, alla fine sembra voler “dare la colpa” agli unici non ricchi abbastanza per farne parte. Questo però succede perché il film ruota attorno a due colpi di scena inseriti proprio con il fine (la spocchia?) di destabilizzare lo spettatore, sorprenderlo, conquistarlo. Un inserimento artificioso che per ben due volte cambia così bruscamente direzione alla traiettoria del protagonista da renderlo inconcludente, sghembo, psicotico.

Il primo riguarda le origini di Oliver, il secondo i suoi fini originari, ciò che lo spinge ad avvicinarsi a Felix. Chi condanna o loda il film sulla base della sua interpretazione in chiave morale sembra aggiungere un significato che Saltburn non ha, o quantomeno a cui non dedica particolare spazio e cura. Sì, ci sono i ricchi che si comportano da stronzi, ma poi sono anche vittime e in generale l’essere facoltosi sembra essere una scusa per dare al film quella spruzzata di gotico un po’ di facciata, ben riassunta dal carattere e dalle grafiche dei titoli di testa.

Sotto il sesso, niente

Sì, vengono ritratti svariati interscambi erotici che coinvolgono due elementi visivamente quasi tabù – lo sperma e il sangue mestruale – ma entrambe le scene hanno un sapore da provocazione giovanile, volta a spararla più grossa, a far stringe con forza la collana di perle alla vecchia zia benpensante durante il pranzo di Natale. Il problema è che Saltburn ci provoca senza un reale fine: non vuole metterci in crisi, né tantomeno farci pensare. Non lo fa nemmeno per il mero gusto di farlo, ma perché è il suo modo (ancora una volta immaturo, giovanilistico) di fare la voce grossa, di sentire di aver un peso, di dire qualcosa di forte.

La sua provocazione e il suo sperma annaffiano un terreno sterile di tomba, perché non portano argomenti, riflessioni, nemmeno intrattenimento così appagante. Si prende troppo sul serio per farci ridere con le sue esagerazioni, ha così poco da dire che risulta difficile prenderlo sul serio. Tecnicamente ha la stessa mano pesante della sceneggiatura: Fennell torna ad accostare blu e rossi, sempre più saturi, sempre più artificiosi e senza più stridenti, mera propensione all’eccesso, esattamente come le sue tematiche.

Che Saltburn sia un castello di carte lo si capisce da come sembra voglia essere una versione esplicita, persino spinta della bollente estate di Chiamami col tuo nome. È un’illusione: lascia un amarissimo sapore di un film che fa entrare e uscire il suo protagonista del ruolo di personaggio queer, abbandonando la questione quando la provocazione è stata servita. Oliver è un mistero non perché la sua mente sia inconoscibile, non per le sue ossessioni e devianze, ma perché la stessa Fennell non fa che cambiare la sua essenza e direzione in maniera così incoerente da risultare irritante. Quando oscilla tra vittima e aggressore, quando il suo ruolo della vicenda nel finale viene riscritto, non è lui ad apparire patologicamente indeciso e insicuro, bensì il film. Lungometraggio che usa Elordi come una statua greca che prende vita, che vive di rendita dell’allure da donna pericolosa dei precedenti personaggi di Rosamund Pike, che introduce personaggi che non danno nulla al film come Venetia e Pamela.

I fluidi, le inclinazioni sessuali, la prevaricazione di classe, gli istinti omicidi: tutto entra nel tritacarne di un film che vuole mettere più carne al fuoco possibile, servendocela sempre poco cotta, buttata sul piatto, nella speranza di impressionarci.

Non è una sorpresa che il pubblico generalista reagisca con vivacità a questo tipo di scene, diventate negli ultimi anni ancor più inusuali di un tempo, anche dentro il perimetro del cinema d’autore. A lasciare l’amaro in bocca è che per risultato Saltburn si posiziona sotto chi usava le provocazioni per dire qualcosa, per mandare un messaggio, ma anche per titillare o semplicemente batter cassa. Se cerchi solo una reazione forte, icontenuto della scena diventa un atto meccanico, un calcolo a tavolino, un espediente simile al jump scare, per ottenere la stessa forte reazione con un trucchetto. Dietro le forti reazioni che Saltburn sta raccogliendo però non c’è nulla, nemmeno il piacere della provocazione stessa.



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