E’ possibile realizzare un prodotto d’intrattenimento che sia un compendio – ma anche una sorta di test – della famosa “sospensione d’incredulità”? The OA, la serie targata Netflix realizzata da Zal Batmanglij e Brit Marling, potrebbe essere la risposta. Com’è noto la sospensione d’incredulità corrisponderebbe (secondo l’intuizione di Samuel Taylor Coleridge) a quella condizione ricettiva per cui ci rendiamo disponibili ad accettare come plausibile qualunque racconto/rappresentazione di finzione.

Tale condizione non è solo necessaria per godere a pieno di un prodotto d’intrattenimento, ma rappresenta la chiave di volta su cui poggia gran parte del consenso di un fruitore. Più a lungo e in profondità quella sospensione sarà preservata, più lo spettatore sarà disposto a cedere un pezzetto della sua realtà in cambio di un’illusione. In poche parole si tratterebbe di una forma controllata e socialmente accettabile di psicosi, che può divenire collettiva quando si verifica in luoghi pubblici di condivisione come la sala cinematografica o il teatro. La sospensione d’incredulità, tuttavia, non riguarda le sole opere di finzione, ma può attivarsi quando capita di aver a che fare con qualcosa di cui non possediamo piena conoscenza, o cognizione o di cui non abbiamo prove certe.

THE OA

In quest’ottica è possibile affermare che, ad esempio, ogni credo religioso, per essere praticato, implichi una certa sospensione d’incredulità, una sospensione che viene comunemente ribattezzata “fede”. Perciò credere (religiosamente) significa anche non credere a ciò che i nostri sensi ci confermano ogni giorno della nostra vita, cosicché calarsi nei panni di un personaggio di un libro o emozionarsi per la scena di un film rappresentano dei veri e propri atti di fede che, con un rigido discernimento, non potremmo mai compiere. A partire da questa semplice constatazione, che Coleridge ci consegnava ben prima della nascita dell’audiovisivo, è possibile fare un’ulteriore osservazione, e cioè che il dato credibile di una qualunque opera di finzione non interessa esclusivamente gli aspetti fisici del rappresentato (il tempo, lo spazio, la materia), ma anche quelli metafisici. Siamo cioè disposti a credere all’incredibile quand’esso rispetta una coerenza che è anche e soprattutto simbolica. In caso contrario ogni narrazione – come quelle più Grandi descritte da Jean-François Lyotard – è destinata a crollare come un castello di carte…

Ed è proprio su questo scarto tra credenza e conoscenza, dichiarazione e conferma, che si snodano vicenda, tematiche e narrazione di The OA. Non solo la storia narra la vita di Prairie Johnson/Brit Marling, bellissima e introversa ragazza cieca che si rifà viva, dopo un’assenza di sette anni, nella cittadina natia, ma la inserisce in un presente in cui, inspiegabilmente, ha riacquistato la vista. Prairie, proprio come lo spettatore, deve compiere un atto di fede per credere a tutto quello che, per la prima volta, gli si presenta di fronte, e allo stesso modo i suoi cari, i suoi amici e i suoi conoscenti, devono affidarsi ai soli racconti che, giorno dopo giorno, ella offrirà loro. Così come Prairie non ha una conoscenza completa di quel mondo che, dopo anni, torna a calpestare, gli altri non hanno prove tangibili dei resoconti sulla sua lunga assenza. Entrambi sono costretti a sospendere l’incredulità e accettare quello che viene detto loro.

Per rendere la storia ancor più incredibile, o per meglio dire, sempre più incredibile – dal momento che tutti gli otto episodi sembrano rappresentare una sfida alla coscienza e al coinvolgimento dello spettatore – gli autori infarciscono il racconto di Prairie con ogni teoria inconfutabile a portata di mano – figure e passi religiosi (sacri e profani), speculazioni filosofiche, ipotesi scientifiche (teoria delle stringhe e multiverso) – rendendolo sempre più paradossale e, a tratti, ridicolo. A sua volta la narrazione sfrutta una strategia vincente che, a partire da un’introduzione mistery piuttosto tradizionale, congelata nei 45 minuti prima dei titoli di testa, si articola poi attraverso numerosi flashback che informano sia i personaggi della storia, sia gli spettatori, mettendo però a dura prova la fiducia di tutti, tanto che giunti all’epilogo non si sa davvero più cosa pensare, se non di essere finiti proprio lì dove l’albero che cade forse fa rumore e forse no. Prairie è quello che dice di essere, o ci siamo bevuti una delle storie più improbabili della televisione? Stiamo già imparando i “movimenti” o l’unico movimento possibile è quello di stoppare la visione? Si ride delle trovate della serie e, al tempo stesso, ci si emoziona per le pieghe prese dalla storia, si entra e si esce dalla sospensione d’incredulità, dalla psicosi spettatoriale, e l’esperienza, che piaccia o meno, è piuttosto nuova.

La Marling e Batmanglij si addentrano in un territorio perlopiù inesplorato, trasgredendo una delle leggi cardine della narrazione, ossia la credibilità, spingendosi ben oltre i confini della diegesi – a pensarci la stessa autrice è anche colei che narra e di cui si narra all’interno della storia – realizzando un prodotto tanto affascinante e sfuggente, quanto grottesco e, per i più, insostenibile. In ogni caso, va visto.



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2 Comments

  1. A guardare gli otto episodi viene da chiedersi come sia stato possibile che qualcuno abbia investito dei soldi in questo progetto, dove gli autori sembrano aver buttato dentro tutto quello che gli passava per la testa.
    Ci sono alcune buone idee, non del tutto nuove però, ma la scrittura, scelte di montaggio e il casting sono peggiori di un B-movie qualsiasi.

    1. Probabilmente si è investito sulla base della scrittura, delle scelte di montaggio e del casting, che tirati in ballo così non significano una sega, ma rispettano il giusto clima di argomentazione…

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