Abbiamo dovuto aspettare tre anni. Neanche troppi infondo, ma più che sufficienti a fare crescere il giusto appetito per godere appieno della sua ultima opera.
Presente nelle sale americane e britanniche già da giugno, in Italia si dovrà aspettare il cinque dicembre per entrare nel regno della luna nascente di Moonrise Kingdom. Dopo il film d’animazione Fantastic Mr. Fox, prodotto nel 2009, ecco quindi l’opera ultima, nonché summa poetica, del quarantatreenne regista texano giunto al suo settimo lungometraggio.

Anderson prende la farsa molto seriamente. Costruisce case di bambola dove fare agire i propri attori come perfetti burattini. Ci rende spettatori di una recita fatta da automi in grado di aderire al copione ma asciugati dall’odore – sudore d’umanità, figure bidimensionali, interessanti per colori e azioni, le cui psicologie restano più attaccate al copione che ai gesti.

È paradossale il mondo di Anderson. Quasi sorprende vedere che i suoi abitanti siano fatti di sangue. Potrebbero essere fatti di plastilina, infatti. O di cera. Il suo è un regno alla Madame Tussauds ed è proprio questa la sua bellezza. Non ci si può confondere, impossibile scambiarlo per qualcun altro.
Anche se è poi vero che ha fatto scuola e certe pellicole, vedi Little Miss Sunshine e Juno su tutti, senza di lui, non avrebbero mai trovato ispirazione.

Ma Anderson è sempre Anderson ed è inconfondibile. Lo senti subito dai colori netti, dai rossi, dagli azzurri, dai gialli, lo riconosci dagli attori, collezionati come un esercito di soldatini di piombo, film dopo film lungo un percorso che dura da sedici anni. La famiglia Anderson è così cresciuta, si è fatta squadra, partendo da Bottle Rocket (1996) con i fratelli Wilson fino a giungere a Moonrise Kingdom con l’immancabile icona e feticcio Bill Murray.

Ti ricorda chi è in ogni singola inquadratura simmetrica e perfetta, zeppa di particolari tutti studiati, nelle grandangolari e nelle anamorfiche, nella capitolazione da film muto, rigorosamente in Futura. Ti trascina nel suo teatro, mentre proietta un silent movie, ma poi ti da anche l’audio e ti abbaglia di colori. La scena è fissa, l’azione buffa. Il body language accentuato. Proprio come nel cinema degli esordi, grande influenza sulla sua regia, ed egli ne restituisce il merito.

La sua estrazione non accademica lo rende una bestia strana, che gioca d’autobiografismo misto a citazioni. Non lascia intendere se la fissità della macchina da presa, divenuto suo tratto distintivo, sia anche un’esigenza dettata dall’essere autodidatta. Anderson è, infatti, un filosofo, un pittore precisionista divertito da se stesso, un dio bambino specializzato in psicanalisi.

Il viaggio, l’unione, la solitudine ma soprattutto i cerchi spezzati, carriere stoppate, o mai nate, e un contegno tra l’arreso e l’ozioso sono le ricorrenze delle storie andersoniane che mai toccano temi sociali, ma ci aprono a microcosmi, ecosistemi sintetici e chimici (nei colori e nelle geometrie cristallizzate), cortocircuiti emotivi e familiari. Ed è forse, proprio per questo suo focus particolare che ci parla della società, in modo speciale di una certa società. Quella dell’upper-class bianca e nevrotica, ingarbugliata nella propria stessa comodità, abbronzata alla luce dei neon o dei propri abbacinanti Mac.

Ed è qui che si scopre il tratto più strettamente autobiografico di tutta la filmografia andersoniana, che parla di questa ristretta fetta d’umanità non per criticarla ma perché è quella che meglio conosce, che più lo diverte, con le sue nevrosi da cattività e le sue stranezze da giardino d’infanzia inamidato. Tale setting si ritrova anche laddove i personaggi non vi appartengano. È il caso di Max Fisher in Rushmore, Sam Shakusky in Moonrise Kingdom e perfino di Mr. Fox, volpe antropomorfizzata e resa alter ego registico attraverso una fisicità dinoccolata e filiforme. Outsider del bel mondo ma con un contegno d’alto bordo e il pass partou per accedervi, in un modo o nell’altro.

Assieme a queste figure si mescolano personaggi mai cresciuti, abituati a un lusso non sudato ma garantito che tentano fughe, missioni impossibili per il gusto stesso dell’impresa. E se il tema principale è, dunque, il fascino discreto esercitato dalla borghesia, con la sua relativa inettitudine, va da sé che il modo stesso di affrontarlo è basato su un’immagine apparecchiata e cristallina come una vetrina da salotto.

Anderson ci affascina così col potere plastificante e immortale della forma, ergendosi a padre di quella perfezione data, se non dalla sostanza, dall’estetica. Non è un caso che i suoi personaggi facciano tendenza divenendo vere e proprie icone tra i sedicenti hipster. Una moda questa che eleva la nevrosi a status-symbol, sgrassata da quel contenuto tangibile e carnale dato dall’essere umani.

Agli estremi di tale (h)ip(st)er manierismo troviamo comunque in Anderson sempre il riflesso di sentimenti e comportamenti profondamente umani. Si vive quindi una scissione quasi psicotica all’interno delle sue pellicole. Da una parte storie intense, dove sentimenti ed emozioni si mischiano e si portano agli estremi, dall’altro la rappresentazione scenica è perennemente formale e contenuta come se i personaggi indossassero perennemente una maschera teatrale. Ne segue che le risposte richiamate siano diametralmente opposte.

Il suo sapore a molti appare infatti troppo (poco?) forte e innaturale e finisce con l’avere lo stesso effetto della Marmite (NDR: una crema spalmabile per toast, molto utilizzata nei paesi anglosassoni, dal forte odore e dal sapore caratteristico che arriva a dividere ferocemente l’opinione dei consumatori tra estimatori e detrattori): o lo ami o lo odi. Il segreto per apprezzare la sua opera sta nel non aspettarsi altro se non quello che lui è disposto a dare. Amare Anderson è quindi una questione d’accettazione del suo sguardo da adulto-bambino che prende e fa muovere macchina da presa e pedine in un gioco con regole da egli stesso inventate.

Sono favole strane le sue. Ecco, Anderson è Woody Allen che racconta favole per bambini. E ruba, ma lo fa come lo farebbe un bambino, e ogni bravo regista: per amore delle cose di per sè. Beninteso, qui non si sta cercando di demolire o sezionare il lavoro di uno dei registi più interessanti dei nostri anni ma piuttosto di capire cosa ci dà in pasto. Così, nel gioco del cosa saresti se fossi qualcosa da mangiare, Anderson è uno di quei piatti di nouvelle cuisine coloratissimi e geometrici, che fanno godere l’occhio e lasciano la lingua a domandarsi cosa le è passato sopra. Un’esperienza unica, lontana dalla forma dell’ingrediente per come lo si trova in natura. Per questo, prima di assaggiare strato dopo strato la millefoglie di Anderson, i suoi lavori possono lasciare un sapore strano in bocca. Soprattutto a chi ama la carne al sangue.

Anderson è per chi ha già assaggiato e gustato filmicamente (quasi) tutto. È per chi ama giocare d’archeologia e scovare quei mattoni che hanno eretto uno ad uno l’edificio filmico. Il variopinto patchwork in pellicola. E molteplici sono infatti gli ingredienti mescolati e rimescolati con la cura onirica di una memoria che è scrigno dei tesori cinematografici. Si incontrano in parata felliniana echi di personaggi che hanno segnato la storia del cinema e dell’immaginario collettivo. In Rushmore, per dirne una, la Nouvelle Vague cammina a fianco del filone Americano fine anni ‘60. Max Fischer ha insieme lo sguardo smarrito d’Antoine Doneil (il personaggio inventato dal regista francese François Truffaut e protagonista di molti suoi film) e il contegno serioso dell’esordiente Hoffman ne Il Laureato. Il nucleo andersoniano si centra infatti attorno alla linea di confine in cui età adulta ed infanzia si incontrano e fondono. Non c’è adolescenza ma una creazione nuova, una chimera, che vede ragazzini comportarsi da adulti ed adulti, specialmente padri, non riuscire a scendere a patti col proprio ruolo.

Se adulti e bambini si trovano sullo stesso piano di maturità sentimentale non è dunque strana l’attrazione di un ragazzo più giovane verso l’insegnante come accade in Rushmore, strizzando l’occhio a quel capolavoro del ’71 che fu Harold e Maude (diretto da Hal Ashby e scritto da Colin Higgins), né tantomeno bambini che agiscono col contegno d’adulti mettendone in ulteriore crisi il ruolo. Il gioco di rimandi si fa sottile, fa leva sulla memoria dello spettatore senza, tuttavia, nulla sottrarre qualora la citazione non venga colta. Esemplificativo è uno dei momenti più intensi della filmografia andersoniana in cui la frase sussurrata da Richie Tenenbaum allo specchio e a noi spettatori, “I’m going to kill myself tomorrow” è, nella sua semplicità, una ricercata citazione di Fuoco Fatuo di Malle. Il fatto di saperlo o meno nulla toglie all’impatto della scena.

Anderson non fa che ripetere la stessa pellicola, ma lo fa talmente bene che non lo si può che perdonare. In fondo è la sua filosofia. Non a caso la massima della naiveté pronunciata da Max Fisher è proprio: “il segreto della felicità è trovare una cosa che ti piace e continuare a farla per tutta la vita”. Se nel caso di Max è quindi frequentare la Rushmore school, per Wes è realizzare queste pellicole quirky, variazioni multiformi di un’unica narrazione. Così, dopo aspiranti fuorilegge, geni falliti, esploratori acquatici e volpi parlanti, il libro delle favole si apre sull’amore di due acerbi outsider che si danno alla fuga per trovare se stessi. Moonrise Kingdom si presenta così come la nuova edizione della favola andersoniana, migliorata, ampliata, con maggiore sentimento. Un’altra storia, un’altro viaggio e un amore strampalato in grado ci regalarci momenti di altissima estetica con sottofondo a base di Françoise Hardy e Hank Williams.
Buona Visione.



Players è un progetto gratuito.

Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.

Grazie!
, ,
Similar Posts
Latest Posts from Players

Comments are closed.