Un proiettore da cinema

Tempi bui per il cinema ed in generale il mondo dell’intrattenimento americano, che affonda lentamente ma inesorabilmente, anno dopo anno, tra filmetti inconsistenti, cinecomic ripetitivi e autori storici da tempo sedutisi sugli allori (e i soldi) dello streaming. Per fortuna,  altrove, si continua a fare cinema di grande qualità e di film da consigliare ce ne sono lo stesso…


The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh: 1923, nell’immaginaria isola di Inisherin, in Irlanda, il musicista Colm Doherty decide di punto in bianco di troncare ogni rapporto con l’amico di bevute Pádraic Súilleabháin. Quest’ultimo non capisce il motivo della decisione e insiste per riallacciare i rapporti.
Insiste, insiste, insiste…
Era il mio secondo most wanted del 2022 assieme a Triangle of Sadness e nemmeno questo delude, confermando il genio assoluto di Martin McDonagh, che dopo il capolavorissimo Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, scrive e dirige un’opera assurda e magnifica, tra Ionesco e Beckett, che racconta, in dialetto irish strettissimo, due ossessioni, il senso del Tempo, le conseguenze cui spinge il capire che questo passa e non torna indietro e i catastrofici sviluppi cui può portare l’ostinazione (e l’ottusità) dell’uomo. Clamorose le performance di Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon (e di Barry Keoghan, letteralmente “lo scemo del villaggio”) e sublime la ost di Carter Burwell che riesce a normalizzare l’illogicità delle vicende umane. 


Pinocchio di Guillermo del Toro: Mai e poi mai avrei pensato di spendere lodi sperticate per la millemillesima versione di questa storia, ma Del Toro ha tirato fuori dal cilindro uno dei migliori film della sua carriera, se non il suo migliore in assoluto, stravolgendo in toto non solo l’opera originale, ma anche la sua “morale”. Tutti cambiamenti funzionano, dal setting (l’Italia fascista e in guerra) al tono (apparentemente leggero ma in realtà cupo e disperato), dalla gestione dei personaggi (Geppetto fa Pinocchio per avere un clone del figlio morto, Lucignolo è un Balilla, la “fatina” è la versione aggiornata e inquietante del Fauno) al potentissimo finale (una lucida e spietata riflessione sull’unicità della vita, il valore del tempo che ci è dato e l’ineluttabilità della morte). Un’opera tecnicamente prodigiosa e artisticamente importante.


Il corsetto dell’Imperatrice di Marie Kreutzer: Anche per le imperatrici arriva la crisi di mezza età e per Sissi, regina d’Austria e d’Ungheria, il compimento dei 40 anni porta ad un ripensamento generale della propria vita, fino ad allora incentrata sul mantenere inalterati i suoi standard “estetici”, per non tradire le attese di marito, prole, amanti e sudditi… Originale (nella forma, meno nella scrittura) “rilettura” della vita di Sissi da parte di Marie Kreutzer, che richiama alla lontana l’approccio che la Coppola utilizzò per Maria Antonietta. Il risultato è un film interessante, a volte un po’ retorico e prevedibile, ma esaltato dalla performance eccelsa di Vicky Krieps e da una scelta musicale particolarmente creativa. L’Austria lo manda agli Oscar come miglior film straniero. 


TAR di Todd Field: Bello, ma davvero estenuante, sia per la durata da sequestro di persona, che per la originale (ma a volte scarsamente funzionale) idea di alternare sequenze stralente e ultraverbose ad altre quasi istantanee. Dal film, una sofisticata riflessione sul ruolo del potere, del tempo e della vacuità delle “cose” terrene, emerge un interessante racconto di donna dispotica, che, acquisito il potere (non senza fatica) ordina, ordisce, manipola chiunque le capiti a tiro. Anche il mondo della musica classica “pro” non ne esce benissimo, visto che pare popolato da persone abilissime ma mitomani, autoreferenziali ed egoriferite. Sequenza top quella in cui lei, lesbica, cazzia lo studente bimbominkia perchè non vuole suonare Bach, a suo dire maschilista per aver fatto troppi figli. Todd Field torna alla regia dopo un bel pezzo (il capolavorissimo Little Children è del 2006) e guida con mano sicura una Blanchett perfettamente in parte.


Triangle of Sadness di Robert Ostlund: Era il mio most wanted di quest’anno e non ha deluso le attese.
La sezione “capolavoro” è la seconda, quella sullo yacht, ma tutto il film è molto più sociale e politico di quanto l’aspetto grottesco e smaccatamente rivoltante faccia credere. Si comincia coi soldi (e la moda/social/etc.), si prosegue con la lotta di classe e si termina, molto coraggioso di questi tempi, con una rappresentazione del matriarcato di inaudita ferocia iconoclasta: il potere e la relativa gestione, corrompe tutti, sempre, ovunque. Forse c’è una mezz’ora di troppo, col terzo segmento un po’ tirato per le lunghe, ma per il resto quest’inno alla misantropia è perfettamente riuscito, regia inventiva, cast ottimo (terribile la morte prematura a soli trentadue anni di Charlbi Dean, davvero bella e brava), script al bacio. Certo, fa pensare il fatto che film del genere erano quasi la norma nel cinema italiano negli anni ’70, visto che Ostlund pesca a piene mani dalle opere di Marco Ferreri, Lina Wertmüller e Luciano Salce, ma tant’è. 
IN DEN WOLKEN!


Parigi, 13th Arr. di Jacques Audiard: Audiard a settant’anni sa ancora parlare alle (e delle) generazioni più giovani, aiutato dalle supercoppia di co-sceneggiatrici Céline Sciamma & Léa Mysius, che costruiscono un bell’intreccio di relazioni fra tre donne e un uomo, trattando con leggerezza amore & sesso, la perenne precarietà professionale, i rischi (e i benefici…) di app e social, la necessità del contatto (o scontro!) tra esseri umani come unica via possibile per provare un minimo di empatia verso il prossimo. Il film funziona alla perfezione (e che colonna sonora!), ma Noémie Merlant (😍🥰😘) sta davvero una spanna sopra tutti.


All quiet on the western front di Edward Berger: Eccellente adattamento del capolavoro senza tempo di Erich Maria Remarque, che, nonostante una durata faticosa, avvince e convince grazie ad una regia sublime ed un cast affiatato e valido. Il massiccio uso dei campi lunghi, la cruda messa in scena degli avvenimenti, con zero concessioni alla retorica o all’eroismo, l’apprezzabile equidistanza nei confronti dei fronti contrapposti, che permette di concentrare l’attenzione sulla misera vita dei soldati, più che sui giochi politici orditi alle loro spalle, permettono la creazione di momenti e sequenze memorabili (l’arrivo dei carri armati, la fisicità degli scontri nelle trincee, il pellegrinare del protagonista da un campo di battaglia all’altro). C’è qualche perplessità sui dialoghi, non particolarmente ispirati e un po’ troppo “chiaroveggenti”, ma il rilievo non inficia il risultato finale. Non è originale come 1917, ma è “centrato” come e forse più di molti classici del genere. La Germania, giustamente, lo manda agli Oscar. 


La nuit du 12 di Dominik Moll. Una ragazza, mentre torna a casa da sola in piena notte dopo aver partecipato ad una festa, viene aggredita e bruciata viva. Un giovane investigatore prova a dare un volto all’assassino…
Uno di quei thriller/polizieschi che si girano una volta ogni vent’anni, non solo per la capacità di catturare l’attenzione dello spettatore (che peraltro viene informato fin dai titoli di testa che no, il colpevole non sarà mai scoperto), ma per il taglio “esistenzialista” che aumenta il suo peso nella storia, mano a mano che le indagini proseguono. Dominik Moll, perfetto sia in regia che come sceneggiatore (i dialoghi sono eccezionali nella loro semplicità e capacità di svariare tra temi diversissimi), realizza un’acutissima analisi sociologica dei rapporti tra uomo e donna e tra autorità e “cittadini normali”, muovendosi con intelligenza tra gli spazi angusti della centrale di polizia e delle case dei sospettati e quelli, bucolici, delle Alpi che circondano il paesino teatro della vicenda. Cast fantastico, finale incredibile. 


Argentina, 1985 di Santiago Mitre: La dittatura dei militari è caduta e dev’essere celebrato il processo per definire le loro responsabilità. La patata bollente va nelle mani del procuratore Julio Strassera, che mette assieme un team di avvocati inesperti ma intraprendenti per trovare le prove dei misfatti compiuti…
Brillante dramedy processuale, che racconta un episodio chiave della storia recente argentina, alternando un registro serio e rigoroso ad altro, più brillante, leggero e ironico. Santiago Mitre riesce a mantenere il film sempre in equilibrio tra dramma storico e commedia grottesca, grazie ad uno script impeccabile e alla solita, titanica prova di Ricardo Alberto Darín (che sta al cinema argentino come Song Kang-ho a quello coreano, io amo incondizionatamente entrambi). L’Argentina lo manda giustamente agli Oscar. 


Raymond & Ray di Rodrigo García: Due fratellastri si ritrovano per organizzare il funerale del padre, che aveva con entrambi un rapporto conflittuale. Sarà l’occasione per tracciare un bilancio delle proprie vite e scoprire lati sconosciuti del defunto genitore…
Scintillante dramedy di Rodrigo García, che sfrutta appieno l’immenso talento dei due protagonisti e confeziona un film delizioso su “vita & morte”, dotato di una leggerezza “orientale” nell’approccio al tema. Script validissimo e valorizzato appieno da McGregor e Hawke, entrambi al top e capaci di creare un’alchimia unica. Si sorride spesso. 


Memory Box di Joana Hadjithomas, Khalil Joreige: Montréal. Il giorno di Natale una madre e una figlia ricevono un misterioso pacco proveniente dal Libano. Contiene , un’intera corrispondenza che la madre, dai 13 ai 18 anni, ha spedito da Beirut alla sua migliore amica rifugiatasi a Parigi per fuggire dalla guerra civile. Sarà però la figlia, appassionatasi alla vicenda, a costringere la madre a fare i conti col suo passato…
Splendido melodramma al femminile che racconta con brio e inventiva il rapporto che abbiamo col passato e le “cose” (quaderni, cassette e fotografie) che ci permettono (per ora, in un futuro totalmente digitale chissà) di utilizzarle per legare a noi ricordi, rimpianti, passioni mai sopite. Cast fantastico e regia al top. Povera Beirut. Il Libano giustamente lo manda agli Oscar, ma sarà dura.


Blonde di Andrew Dominik: Tutto quello che avrebbe potuto (e dovuto) essere Elvis e non è stato e il film più simile a Mulholland Drive realizzato negli ultimi anni. Andrew Dominik prende il “mito” di Marylin e la vita di Norma Jeane e li racconta come se fossero un horror moderno, alternando diversi formati cinematografici, colore e bianco e nero e differenti linee e piani temporali. Ogni multiverso Maryliniano è però pregno di dolore e frustrazione: abusata e vessata da tutti, Norma Jeane passerà la vita alla perenne ricerca di una figura familiare amica e di una legittimazione culturale che non arriverà mai. Dominik sbaglia paese ed epoca (agli ameriCANI ovviamente non è piaciuto) e firma un film tesissimo e avvincente, pieno di nudi, threesome, aborti (visti dall’utero), droga, violenza, insomma tutto quello che il cinema yankee non offre più. Eroica, a dir poco, Ana de Armas.


The Quiet Girl di Colm Bairéad: Irlanda, primi anni ’80. Una ragazzina, ultima di troppi figli, insicura e vessata sia a casa che a scuola, viene mandata dai genitori presso una coppia di lontani e anziani parenti per l’estate. In questa nuova famiglia, amata, ritroverà la gioia di vivere, fatta di piccole cose.
Meraviglioso coming-of age, ambientato in un’Irlanda verdissima e non ancora urbanizzata, sorretto dalle stupefacenti performance dei tre protagonisti (la ragazzina, Catherine Clinch, è pazzesca, ma anche i due “nuovi” genitori non sono da meno) e dalla tranquilla regia di Colm Bairéad che lavora di sottrazione, conferendo attenzione e importanza a piccoli dettagli, espressioni e gesti. Finale potentissimo. L’Irlanda lo manda agli Oscar per il miglior film straniero e se c’è giustizia, almeno nel quintetto finale meriterebbe di starci.


Love Life di Koji Fukada: C’è poco da fare: gli americani sono i migliori a girare film sportivi, i francesi i migliori a girare quelli sulla scuola e gli orientali, giapponesi in primis, i migliori a trattare l’argomento “morte e relativa elaborazione”.
Qui muore un bimbo, a causa di un incidente domestico e il fatto cambia radicalmente la vita della madre, dei due padri (quello naturale e quello che stava per adottarlo) e di tutte le persone che avevano avuto direttamente o indirettamente a che fare con lui.
Kôji Fukada firma un film poetico ed emozionante, assolutamente perfetto in ogni suo comparto (dal cast alla regia, dalla musica al montaggio), che parla (e mai titolo fu più azzeccato) della vita e dell’amore che continuano anche dopo un evento luttuoso. Tre sequenze (quella della camera ardente, del terremoto e del matrimonio) da storia del cinema, ma in tutto il film non c’è un minuto dei centoventi totali che non sia impeccabile. 


Alcarras di Carla Simon: Una famiglia di agricoltori scopre che i terreni coltivati per decenni ad alberi di pesche, in realtà non sono di loro proprietà e che presto saranno “sfrattati” da una società che installerà dei pannelli solari.. Splendido affresco socio-economico sui tempi che passano, sul rapporto uomo/natura/lavoro/progresso e strepitosa descrizione di quattro generazioni diverse (nonni, genitori, figli, nipoti). Bellissimo da vedere e ascoltare, conferma il talento di Carla Simón, che in passato aveva firmato lo splendido Estate 1993. Non stupisce l’Orso d’oro al’ultima berlinale. 


Decision to Leave di Park Chan Wook: Un uomo cade da una rupe. L’investigatore che si occupa del caso finisce con l’innamorarsi della vedova (fin troppo tranquilla), ma questa diventa anche la principale sospettata della morte del marito…
Gigantesco ritorno di Park Chan-wook, che firma l’ennesimo filmone (forse il suo migliore in assoluto), mescolando noir, thriller e romance, elaborando una storia complessa e sofisticata e girando con una perizia tecnica inarrivabile delle sequenze assurde e originali (l’interrogatorio “flirt”, l’inseguimento di un sospettato, il ritrovamento del cadavere), il tutto con il gusto iconoclasta e l’ironia al nero vista ai tempi di Old Boy, ammiccando un momento a Hitchcock e un altro a Satoshi Kon. Montaggio ultraterreno, cast perfetto. Premio alla regia a Cannes, credo, strameritato, anche se quest’anno c’era il mondo in concorso e la qualità era altissima.


Petite Nature di Samuel Theis: Come vi immaginate fra vent’anni?
Basta questa semplice domanda a far scattare la “scintilla” tra un decenne, oppresso da una famiglia incasinata (padre assente, madre alcolizzata, fratelli useless) e un professore delle medie, che instaurano un rapporto allievo-maestro sempre più personale. Il risveglio “affettivo” corrisponde a quello intellettuale? Forse, e il futuro è comunque una strada non scritta.
Cinema francese al suo meglio (quanti film hanno “professori” come protagonisti? Non è un caso…) e immaginate di girare un film simile in Italhahahahah, per carità.


Gagarine di Fanny Liatard, Jérémy Trouilh: Sorto negli anni ’50 alla periferia di Parigi, il quartiere residenziale Cité Gagarine, inaugurato dal celebre cosmonauta, sta per essere demolito. La famiglie vengono sgombrate, gli appartamenti svuotati, ma un ragazzo, appassionato di scienza, decide di non andarsene…Straordinaria favola urbana, che scansa tutti gli stereotipi del “film delle periferie”, scegliendo una forma leggera e onirica, surreale e magica, per raccontare la battaglia impossibile di un perdente dal grande futuro e il rapporto simbiotico che si instaura tra una comunità ed il luogo che la ospita. Cast, regia, colonna sonora, script, tutto perfetto. 


Vortex di Gaspar Noè: Al suo sesto film, l’eufemisticamente discontinuo Gaspar Noé, firma il suo capolavoro assoluto, raccontando, con un film lento e meditativo, gli ultimi giorni di una vecchia coppia (magistralmente interpretata da Dario Argento e Françoise Lebrun) alle prese con la demenza senile e il tempo che scorre troppo in fretta. Come Haneke in Amour, Noè riflette sull’invecchiamento e sull’avvicinamento alla morte, sfruttando finalmente il suo talento visivo per costruire sequenze memorabili e originali (a cominciare dallo spit-screen che permette di “vivere” contemporaneamente le esistenze dei due coniugi). 


La fortuna di Ninuko di Ayumu Watanabe: Kikurin ha 11 anni e vive con Nikuko, la madre eufemisticamente sovrappeso, su una barca. La donna, buona ma ingenua e spesso vittima di truffe ordite dai compagni che ha avuto durante la vita, fatica a impartirle un’educazione vera e propria, così alla ragazza non resta che maturare da sola…Miglior film animato giapponese visto da un bel po’ di tempo, che conferma il talento di Ayumu Watanabe (I figli del mare, Komi Can’t Communicate), uno dei migliori registi della sua generazione. Tra omaggi a Miyazaki e Kon, l’autore porta in scena un bestseller nipponico, raccontando una storia di maturazione e formazione che ricorda i Ghibli migliori, pur mantenendo una sua personale e riconoscibile cifra stilistica. 


BONUS! 

La migliore serie italiana

Esterno Notte di Marco Bellocchio: l‘unico aggettivo possibile è “monumentale”. Bellocchio, splendido ottantenne, giustifica il pagamento del canone, firmando la migliore serie Rai degli ultimi vent’anni, raccontando una storia già oggetto di mille analisi ed interpretazioni con una verve, una creatività e un rigore morale impensabili nel cinema italiano attuale. Tutto eccelso, senza distinzioni.

Il miglior film italiano

Dante di Pupi Avati: Il miglior film di Avati degli ultimi vent’anni.
Grandiosa la ricostruzione storica e la performance del cast, ma la scelta vincente è la rappresentazione di un Medioevo cupo, realistico e tangibile coi suoi fetori e le malattie, la morte e la guerra, le superstizioni e la religione onnipresenti, una ricostruzione mistica e hororrifica che richiama i grandi classici degli anni ’70 del regista, spiazzando e convincendo. 

La migliore serie straniera

Pari merito tra 

The Bear: Tralasciando lui, fuori parametro e che “riempie” ogni inquadratura, ho molto apprezzato…tutto, dal ritmo ansiogeno (il flashback con lui nel ristorante stellato è memorabile), alla scelta della musica di accompagnamento, dal fine lavoro di scrittura su tutti i personaggi secondari al minutaggio, da vecchio telefilm, compatto, coeso, essenziale. 

The Chestnut Man: Strepitoso mistery/crime/thriller danese, oggettivamente privo di difetti: cast e regia funzionali, colpi di scena ben dosati, script avvincente, rivelazione finale inaspettata. Nettamente il miglior crime dell’anno. 

La migliore serie animata

Cyberpunk: Edgerunner: Dopo Arkane, la miglior serie “videoludica” di sempre e capacissima di vivere di vita propria, anche sganciata dal videogioco di cui è spin-off. Il fatto che le vendite di Cyberpunk siano state rilanciate dalla serie non deve stupire, perchè la qualità di script e realizzazione è a dir poco eccelsa. 

MALUS!

La serie più WTF del 2022

Mercoledì di Tim Burton: non so se è più preoccupante il fatto che Burton abbia deciso di firmare questa fesseria (ovviamente mica l’ha diretta eh, dai, non scherziamo) o il fatto che ne legga benissimo sui social di mezzo mondo. Lei è bravina, ma il resto è da cappio al collo, tra battute prevedibili e ripetute millemila volte, una durata atroce (1 ora a episodio? WTF) il non avere idea se essere una commedia, un teen drama o chissà cos’altro. 



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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