Da molto tempo – a partire dalle frange più estreme del femminismo di fine anni Sessanta, fino ad arrivare alle odierne vittime del marketing ideologico – il dibattito circa la latitanza e la strumentalizzazione dei ruoli femminili al cinema si è riversato di bocca in bocca, di testo in testo e di schermo in schermo divenendo un caso d’emergenza al quale dover porre una rapida soluzione.

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Inutile negarlo, nella storia del cinema sono rari i casi in cui la donna ha assunto incarichi interpretativi di grande rilevanza (al pari dei corrispettivi maschili) che non ricadessero nei tradizionali profili di madri di, mogli di, amanti di e figlie di… Il corpo femminile ha assunto, nelle diverse rappresentazioni cinematografiche, pesi e collocazioni di varia natura e, nel più felice dei casi, quando cioè non si è visto sottrarre il ruolo di main character scomparendo negli sguardi anonimi delle comparse, ha sempre e comunque dovuto piegarsi alle rigide categorie sistematicamente fissate dal tempo.

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L’impressione che, nei film, le figure maschili si scoprissero pian piano, si costruissero un gesto, uno sguardo e una battuta alla volta, ha a lungo cozzato con il fatto che le donne, più facilmente, fossero inquadrate e semplificate. Anche questo – che faceva e fa parte della costruzione drammatica della narrazione – ha persuaso gli spettatori che se scoprire un personaggio maschile sarebbe potuta divenire un’avventura, una presenza femminile avrebbe smorzato il coinvolgimento. Di fatto, i film in cui il protagonista è maschile sono all’unanimità considerati prodotti “per tutti”, mentre una protagonista femminile diviene, spesso e volentieri, l’eroina di un film per “femminucce”. L’accusa è sempre la stessa: il cinema è maschilista e pare esserlo a tutti i livelli della catena produttiva. Lo sarebbero i produttori, lo sarebbero i registi, gli sceneggiatori, i direttori dei casting, i distributori e persino, a osservare i risultati dei box office, gli spettatori. La donna, insomma, sembrerebbe essere vittima di una ghettizzazione mirata e serrata, al limite del fanatismo.

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Non sarà, invece, che la situazione rappresentativa in cui versa la donna sia non la conseguenza di un maschilismo feroce ma, piuttosto, di un “naturale” decorso culturale? In effetti, l’acutizzarsi del problema sembra aver seguito non tanto il declino del ruolo femminile al cinema, bensì lo scollamento tra ciò che il cinema ha sempre mostrato e la realtà che è sensibilmente mutata. L’emancipazione della donna, tra le altre cose, ha comportato un vuoto rappresentativo che, per essere colmato, ha richiesto e continua a richiedere tempo. Se nelle varie forme di rappresentazione l’uomo si è visto trasporre in modo parallelo e corrispondente, la donna ha dovuto subire, in maniera sempre meno passiva, un ritratto inadeguato e infedele.

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Dopotutto, secondo chi parla, la liberazione femminile non ha solamente causato alcuni vuoti rappresentativi nell’esposizione mediatica, ma ha di fatto messo molte donne di fronte al fatto che mancava loro un’identità autonoma e che era giunto il momento di costruirla, definirla ed esprimerla liberamente. Ciò può, almeno in parte, spiegare la ragione per cui, sugli schermi cinematografici e televisivi, molti profili femminili hanno sofferto e continuano a soffrire di lacune psicologiche e comportamentali e funzionano meglio se appoggiati a solide e definite figure maschili. In quest’ottica, a ben guardare, il fatto che la donna non sia riprodotta con la stessa agilità di scrittura riservata agli uomini, più che una scelta pare segnalare una difficoltà. La donna è e resta un mistero anche e soprattutto per se stessa e questo, pur esercitando enorme attrattiva, rappresenta anche un danno alla sua immagine.

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Non a caso, il ruolo della femme fatale è quello che, al cinema, tende a resistere più a lungo. Se in passato il fascino della femme fatale consisteva nella capacità di sfuggire alle rigide formulazioni di genere, perche priva di tutti i legami sociali caratterizzanti (e costrittivi), oggi continua a essere, nella sua misteriosa provvisorietà, l’unica donna di celluloide funzionale e attendibile. De Palma, ad esempio, con grande intelligenza e mestiere continua a servirsene, e lo stesso David Fincher, recentemente, ne ha offerto uno straordinario e potentissimo esempio.

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Alcune riprove, poi, si possono ottenere osservando la situazione da un altro privilegiato punto di vista. Che gli uomini incontrino alcune naturali difficoltà nella composizione dei profili femminili non sbalordisce tanto, o almeno non quanto, quelle tradite dalle donne impegnate nel medesimo compito. Osservando i film delle più rinomate filmmaker è possibile notare che, nell’affrontare il ruolo della donna, il loro lavoro tende a manifestare difficoltà simili.

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A parte la testosteronica Kathryn Bigelow che, occupandosi di cinema d’azione, sceglie di adattare le donne a un universo maschile infischiandosene del problema (posto che ci sia), in genere si tenta di risolvere la questione o appellandosi al cinema in costume, donando qualche interessante sfumatura alle enigmatiche silhouette del passato storico (Lezioni di Piano di Jane Campion, o Maria Antoinette di Sofia Coppola), o dedicandosi a figure debitamente compromesse e quindi già esposte al rischio incoerenza identitaria (In the cut di Jane Campion, Boys don’t cry di Kimberly Pierce, Monster di Patty Jenkins).

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Il resto pare non dedicarsi con particolare profitto alla questione, sia nel caso in cui la protagonista femminile appare totalmente intercambiabile con un protagonista maschile (Aeon Flux di Karyn Kusama), sia quando si prova a tracciare le origini del mistero femminile attraverso inutili giri a vuoto (Thirteen – 13 anni di Catherine Hardwicke).

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In conclusione possiamo dire che sì, è vero, le figure femminili al cinema sono spesso imprecise, poco responsive, sommariamente tratteggiate, impenetrabili, disfunzionali e, forse proprio per questo, narrativamente inaffidabili. Ma l’assenza di ruoli importanti e incisivi tagliati per le donne non è imputabile a una precisa azione di stampo maschilista – che oggi persiste, perlopiù, a uno stato di latenza – ma dipende dal requisito, tipicamente femminile, di irriproducibilità con cui il cinema o sceglie di scendere a patti o finisce per pagarne lo scotto.



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