Recentemente ho avuto la fortuna di spostarmi tra Parigi, Londra e il Galles incontrando registi, scrittrici, poetesse e mecenati. Con queste persone il discorso si è attorcigliato spontaneamente attorno a un unico tema: la sopravvivenza dell’arte e della letteratura nella logica di mercato.
Ieri sera parlavo con Raj Malhotra, imprenditore di Nuova Delhi che ha fatto fortuna con l’Information Technology. Ora, mentre accudisce il suo business milionario, ha deciso di trasformarsi anche in “art producer”. Di cosa si tratta? Raj collabora con l’associazione Art Angel, confraternita di persone facoltose che promuovono e finanziano opere d’arte trovando artisti, autori e registi. Milionari annoiati che non trovano di meglio da fare? Forse. Il risultato, mi dice Raj, mentre saliamo in ascensore, è la sorprendente opera d’arte che vedremo quando si apriranno le porte.
In cima al tetto di questo palazzo sul Tamigi, ecco apparire un battello. Si chiama Roi de Belges, proprio come l’imbarcazione di Joseph Conrad che, risalendo il Fiume Congo, ha ispirato le pagine di Cuore di tenebra. Nel battello aggrappato al bordo del tetto del South Bank Centre, là in alto sui tetti di Londra, vivono, quattro giorni alla volta, poeti, scrittori e autori cui viene chiesto di produrre un testo sulla loro esperienza di 2012 caratteri (cifra che corrisponde all’anno corrente). Colm Toibìn era qui il mese scorso, Michael Ondaatje è partito due giorni fa.
Guardo i tetti di Londra dalla prua del battello sul tetto e penso a Radu Mihaileanu, incontrato qualche giorno prima a Parigi. È uno dei miei registi preferiti. Ha girato Il treno della vita, Il concerto, e il toccante La sorgente dell’amore. Eravamo in un caffé di Belleville per un tè pomeridiano. Radu è presidente dell’ARP, associazione degli Autori, Registi e Produttori, simile ai Centoautori Italiani.
Stanno facendo lobbying con Bruxelles per consentire alla Francia di continuare a finanziare con fondi statali la produzione artistica, cinematografica e letteraria francese e in francese. Comprìs? Se lo Stato non tutela le nostre produzioni, ci omologheremo tutti in un unico modello culturale che è quello americano, mi diceva Radu. Ha ragione sul fatto che la cultura, se lasciata al mercato, ha la tendenza ad abbassare i suoi standard al minimo comune denominatore. Si perdono le nicchie più alte ed esigenti. Si smette di formare le classi dirigenti, i cosiddetti responsabili della guida dell’economia, dell’amministrazione pubblica, dell’educazione stessa, ma le vendite alla base del mercato si allargano al punto che un’azienda culturale, sia essa una società di produzione, un giornale o una casa editrice, non può permettersi altra scelta: deve pubblicare soprattutto intrattenimento.
Ma se nessuno fornisce significato, diceva Radu, chi lo può fare? Solo l’arte e la letteratura lo sanno fare in maniera profonda e vera. E una società che non capisce più il significato delle cose, a cos’è destinata? (La risposta è già nel presente, naturellement). Guardate l’Italia, commentava Radu, fino agli anni 70 e inizio anni 80 creava ancora maestri del cinema e buoni scrittori, ma oggi?
Il declino della produzione culturale in Italia negli ultimi trent’anni è forse il risultato di una commercializzazione scriteriata attraverso la qualità bassa delle televisioni private, in un primo tempo, e poi nella sfarinatura totale della tv pubblica.
Alcuni quotidiani e settimanali hanno scelto come strategia perdente la rincorsa del successo della tv scimmiottandone stile e contenuti, mentre le case editrici hanno coltivato successi di narrativa di autori che avevano (spesso) come unica qualifica la notorietà in ambiti non letterari. Il mercato dell’arte (nonostante i musei dal nome di gelato come Gam, Gnam e Maxxi) sopravvive nelle collezioni clandestine di imprenditori che nascondono i loro tesori al fisco.
Intanto, i finanziamenti pubblici alla stampa, alle case editrici proprietarie di quotidiani e riviste e alle società di produzioni cinematografiche, si affidano a un sistema ancora drogato dal nepotismo e dal familismo amorale, per niente anomalo in un paese che ogni anno rinnova il suo record come il paese Europeo più corrotto.
In più, spiego a Radu, nonostante la spesa delle famiglie nel settore cultura – in controtendenza con tutti gli altri settori – l’anno scorso abbia raggiunto i 70,9 miliardi di euro (aumentando del 2,6%, secondo Federculture), il Ministero della Cultura ha dovuto ridurre il bilancio di 36,4% in dieci anni, arrivando allo 0,1 % del Pil. Le imprese private dal 2008 al 2011 hanno diminuito le sponsorizzazioni culturali del 38,3%. Ma, chiedo a Radu, è giusto il finanziamento pubblico all’arte e alla cultura italiana in un sistema che non garantisce che arrivi a chi lo merita? Forse in Francia è diverso e ha ragione Radu a chiedere i soldi dei contribuenti francesi. Nel suo caso hanno generato film importanti, l’ultimo indaga sui diritti delle donne nei paesi musulmani. Ma sono molto riusciti anche i risultati dei finanziatori privati come gli Art Angel. A Southbank, la riva sud del Tamigi, alcuni metri sotto il battello di Conrad si svolge in questi giorni il Parnasso della Poesia, parte delle Olimpiadi della cultura di Londra. Mi ritrovo a parlare dello stesso tema con la poetessa Alejandra Del Rio, cilena che vive in un paesino delle Ande a 2000 metri sul livello del mare.
Si è resa conto, qui, che tutti stanno scrivendo e parlando solo in inglese.
Cosa sta accadendo alla letteratura, mi chiede Alejandra con i grandi occhi neri un po’ acquosi. Sta morendo? Se andiamo avanti così, le letterature dei paesi più piccoli scompariranno, dice. È quello che succede da voi? Le racconto allora di una scrittrice italo-americana, il cui romanzo è stato rifiutato da una casa editrice italiana semplicemente perché firmato con un nome italiano. Era un libro scritto in inglese, con un discreto successo nel mondo anglosassone e tradotto in italiano. Eppure un editore (uno di quelli che dà il proprio nome alla casa editrice che fonda) l’ha rifiutato. Non per demeriti del testo, ma per la semplice ragione che l’autrice ha un nome italiano. Ora il suo libro è un long-seller di una più illuminata casa editrice italiana.
In Italia, dico ad Alejandra, una casa editrice come la Feltrinelli deve il 75% del suo fatturato ai libri di autori stranieri, quel restante 25% è quel che è: un quarto dei ricavi del settore libri. Poche case editrici hanno percentuali molto diverse. Parrebbe quindi che l’Italia sia interessatissima all’estero. Ma le notizie di politica estera sono le meno seguite in assoluto su quotidiani, riviste e blog. Il settimanale Internazionale è un’anomalia. In Messico quest’esterofilia sfrenata la chiamano malinchismo, in onore della pinche Malinche, la “fottuta Malinche”, nobile azteca che andò a letto con Hernan Cortés e di cui divenne interprete linguistica e culturale, ovvero la prima collaborazionista della storia americana, anticipando Pocahontas.
Allo sparuto club di lettori rimasti in Italia interessano poco gli autori che scrivono in italiano: amano piuttosto le storie sognanti della narrativa di paesi esotici. Stranamente, però, non interessa molto la realtà quotidiana di quegli stessi paesi, raccontata – spesso anche male, è vero – dalle pagine di politica estera dei giornali italiani. In altre parole, spiego ad Alejandra, stiamo leggendo soprattutto autori stranieri di narrativa, vediamo film stranieri (adesso pare che nemmeno i cinepanettoni si salveranno), contempliamo arte contemporanea straniera. Ma non c’è forse qualcosa di velatamente sadico in un paese che rispedisce a casa immigrati che chiedono asilo politico, ma adora leggere poi delle loro sofferenze nei romanzi di autori stranieri? Scoprire storie esotiche con protagonisti di paesi equatoriali funziona, ma andare al bar a bere un caffè con un cittadino di quei paesi, non è altrettanto trendy. Speriamo almeno che, leggendo, qualche animo s’ingentilisca. La letteratura, diceva infatti Mario Vargas Llosa durante un’interessante chiacchierata qualche settimana fa al Festival di letteratura di Hay on Wye, nel Galles, serve a rendere gli animi più sensibili e attenti agli altri, quindi la sua utilità sociale è più vasta e profonda della denuncia giornalistica. La poesia, l’arte, la letteratura e il cinema serio perseguono la giustizia e la bellezza, senza utilizzare la politica come matrice. Hanno, direbbe il Manzoni, per scopo l’utile, per mezzo l’interessante e per oggetto il vero.
Ma, cara Alejandra, in Italia se non sei ricco o non hai accumulato qualche risparmio come puoi permetterti di tentare di scrivere seriamente libri che si occupino, in lingua italiana (come vorrebbe Alejandra) del significato delle cose (come vorrebbe Radu) e di rendere gli animi più sensibili e giusti (come dice Vargas Llosa) e che non siano invece puro intrattenimento, categoria, quest’ultima, cui s’iscrivono per forza i tantissimi magistrati, poliziotti e commissari in voga nella narrativa italiana contemporanea.
È colpa delle mancate sovvenzioni statali che consentirebbero l’esistenza di case editrici più sensibili alla letteratura italiana e meno alla narrativa, mi chiedo? E lo chiedo ad Alejandra. Ma, voi, in quel villaggio sulle Ande, come fate a tenere i corsi di poesia per bambini e tutte le belle cose che mi ha raccontato di questa shangri-la chiamata Monte Gabriela; perché lì è nata la poetessa premio Nobel per la letteratura Gabriela Mistral? Sarete sicuramente finanziati dallo Stato, no? No, dice, noi tosiamo le pecore, filiamo la lana e tessiamo maglioni, tappeti e coperte, produciamo manufatti che vendiamo e restiamo, dice, furiosamente independientes.
Non ci capisco più niente. Radu vive in un paese ancora ricco e vuole salvaguardare la cultura francese con i finanziamenti statali, Raj vuole produrre arte con l’entusiasmo dei miliardari londinesi, Alejandra tosa le pecore e tesse al telaio e dice che a Monte Gabriela non hanno Internet, ma che il loro grande cielo blu è molto più bello di Facebook. E forse altrettanto utile, se lo sai guardare. Mi piace, bella immagine, poetica. Ma davvero il futuro della cultura è tosare pecore in una comune montana? O è già il presente, come sembra dire Alejandra. Bello, bucolico, forse denso d’ispirazione, ma il lavoro che fa chi crea arte e letteratura è un servizio. Non solo all’autore stesso, ma agli altri. Se fornire significato serve a tutti, forse tutti dovrebbero contribuire a pagare chi lo fornisce, sempre che se lo meriti e che lo sappia fare bene. Non in Italia, qui lasciamo perdere. Penso a Conrad che si chiamava Korzeniowski, e anche Radu che di cognome faceva Buchman, o a Gary Shteyngart che si chiama Ivan. E spiego ad Alejandra, che mi ascolta molto contrariata da ciò che le dico, che sto pensando di cambiare il mio nome in “Karl Lakkersson” per potere pubblicare con una casa editrice italiana che ha i libri con la carta e i colori più eleganti di tutti e si chiama Iperborea.
Ma, naturalmente, pubblica solo autori scandinavi.
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Beh, Iperborea più che una casa editrice è una collana di traduzioni di scrittori nordici, cosa ti aspettavi?
A fra,
Naturligtvis visste jag det! Faktum är nu skriver jag en bok på italienska, översatte jag den till svenska och sedan på italienska ritraduco mig att hoppas att tullindrivaren. De har en fantastisk kort!
Praticamente per poterti asciugare su cartai gienica d’oro sei disposto a fare salti mortali.
Patetiskt.
hur aggressiv du är italienska. Nu när jag är en författare skandinavisk allt är mycket mer tydligt, och jag förstår varför du inte publicerar böcker.
Nej men vad fan, din svenska suger (kukar).
Åh, Feruccio, ja, du börjar förstå ironi svenska författaren! …tidningen heter “Spelare”, betyder det att spela, får inte arg…
Ecco, magari eviterei di usare un nome ridicolo come Karl Lakkersson, che in svedese suona come in italiano suonerebbe, che so, Geeno Bapogigi.
Ma in ogni caso: il problema della cultura italiana non è la mancanza di fondi, né l’esterofilia. Il problema è che gli “artisti” italiani ragionano come lei, Pizzati. Ma ancora con la storia del “cinema di intrattenimento” e il “cinema serio”? Ancora con la cultura seria e quella che – dio ce ne liberi – non è noiosa? Ma che è, il 1965? Sono decenni che queste distinzioni non hanno senso. Bob Dylan fa intrattenimento o cultura? (giusto per tenere le cose in un contesto comprensibile anche dagli over-40, che sennò avrei detto i Neutral Milk Hotel). E Terrence Malick fa “film seri” che hanno bisogno di fondi pubblici o roba che la gente va a vedere? E The Corrections di Jonathan Franzen è un romanzo serio o robetta d’intrattenimento? Il problema, piuttosto, è che molti artisti italiani vogliono fare gli intellettuali con la mano sulla fronte, tre frasi di Pasolini costantemente in testa e la missione di recapitare “il messaggio importante”. E in realtà non sanno fare nulla che non sia una noia mortale. Sono mosci, piagnoni e incapaci del minimo slancio artistico. E ci credo che Sorrentino poi pare un alieno: è uno dei pochissimi che sappia fare qualcosa di interessante e con l’incredibile abilità di non fare venire l’orchite al pubblico. E – di nuovo – ci credo pure che le case editrici siano scettiche sugli autori italiani. Il romanzo italiano medio è una cosa terrificante, puro vuoto pneumatico.
Poi è da quand’ero bambino che sento parlare di questa “americanizzazione” della cultura. E onestamente non la vedo. Quello che vedo è che ci sono nazioni che sanno adattarsi al presente e creano cose interessanti e di qualità, commerciali o meno, e altre, come l’Italia, che culturalmente stanno invece ben piantate nel dopoguerra del ventesimo secolo. L’idea dell’arte che “forma la classe dirigente” è così paternalistica e ridicola che veramente non so neanche come si possa sostenere con la faccia seria. Le persone non sono bambini a cui somministrare la medicina dell’alta letteratura altrimenti si ingozzano dei dolci dell’intrattenimento.
E per quale motivo la collettività dovrebbe pagare per libri che nessuno vuole leggere o per artisti che stanno su un tetto a farsi le pippe per quattro giorni? No, davvero: se sei un artista, non ti è dovuto nulla. Se riesci a campare con quello che fai, bene. Altrimenti ti trovi un lavoro come chiunque altro e il prossimo capolavoro della letteratura italiana lo scrivi nel tempo libero. Oppure fai come Linklater che per fare Slacker si è fatto prestare 23000 dollari e ha fatto uno dei migliori film indipendenti degli anni 90. Non sta scritto da nessuna parte che devi poter campare scrivendo poesie intimiste.
PS: Ma la casa editrice che ha rifiutato quel romanzo ha detto chiaramento “no, perché c’hai il nome italiano?” oppure è una congettura?
PPS: Dio mio, no, il cielo blu che è meglio di Facebook no. Per favore. Altrimenti dico che per me il profumo di una zuppa di ceci è meglio di un DVD di Il Posto delle Fragole. Il che, naturalmente, non vuol dire un cazzo.
Kära Ferrucio Cinquemani, jag är ledsen att du inte gillar mitt nya svenska namn. Jag önskar er god läsning! Karl
Sono affascinato da questo imperdibile scambio.