Negli ultimi anni mi capita spesso di sentir dire che a un romanzo fantasy ben riuscito non può che avere una mappa nelle prime pagine, per illustrare al lettore come è fatto il mondo fantastico dove sono ambientate le vicende narrate. La mia esperienza di lettrice mi suggerisce esattamente il contrario: i libri di stampo fantastico ben scritti non hanno alcun bisogno di mappe introduttive, perché nei loro mondi vuoi perdertici dentro e, grazie alla bravura dell’autore, dopo qualche capitolo ti ci senti a casa.
Il mio approccio standard alla lettura di un romanzo (fantastico e non) è quello di consultare il meno possibile glossari, genealogie e tutto il materiale introduttivo e di corredo che affianca il testo duro e puro, lasciando fare allo scrittore, non pretendendo di orientarmi e capire tutto sin dalla prima riga. Se posso sentirmi smarrita o non del tutto consapevole della realtà attorno a me nel mondo in cui sono nata e che abito da decenni, per non dovrei esserlo anche in un realtà che esploro da poche pagine?
La frequenza con cui mi sono trovata a consultare le mappe (al plurale) nelle pagine iniziali di Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon racconta più di ogni altro aspetto la fatica che a volte un lettore deve fare per sopperire alle mancanze di chi scrive e guida.

Il Priorato dell’albero delle arance non è un romanzo complesso: è inutilmente complicato dall’imperizia dell’autrice. Da qualche parte dentro il tomo di Samantha Shannon c’è una trilogia discretamente scritta o un bel romanzo con un’idea di partenza capace di seguire i gusti del momento ma con una propria verve. Il tutto però è annegato in oltre 800 pagine (per buona parte inutili e dannose), frutto di una grave mancanza di editing e dell’incapacità dell’autrice di gestire al meglio un complesso di luoghi, personaggi e storie che le sfugge continuamente di mano.

Una delle poche cose che emergono chiarissime dalla faticosa lettura del romanzo è che Samantha Shannon deve succedere, perché il mondo editoriale ha deciso così. Non è la prima volta infatti che la 29enne si presenta nel comparto SFF anglofono con un lancio in grande stile. Prima del Priorato c’era stato The Bone Season saga presentata in pompa magna (pareva la next big thing nel comparto fantastico) qualche anno fa. In qualche modo successe, dato l’enorme impegno in fase di lancio dei responsabili della promozione, ma la benzina si esaurì a metà strada. Già il secondo romanzo uscì senza destare clamori e la saga venne abbandonata in tutta fretta con il terzo volume e una piccola appendice 0.5. In Italia il primo tomo lo pubblicò Salani con il titolo La stagione della falce e al momento è fuori stampa e fuor di memoria del pubblico.

La nostra, scrittrice laureata a Oxford, in qualche modo torna in pista con Il Priorato e con un lancio inglese di tutto rispetto, a cui si affianca lo sforzo tutto italiano di Oscar Vault, che sia per edizione sia per tam tam sui social non ha fatto mancare nulla alla pubblicazione dell’edizione nostrana. Fa un po’ impressione pensare come solo qualche anno fa Mondadori si accaparrasse titoli di grande successo e passaparola buttandoli poi in libreria come sassi in uno stagno, senza un fiato, così come accadde per esempio a Cuore oscuro di Naomi Novik. A ben vedere poi succede ancora, perché una trilogia di livello (popolare e letterario) come quella di Ancillary di Ann Leckie è uscita nell’indifferenza quasi generale, in primis della sua casa editrice. Forse ci è voluto un po’ troppo per lanciare Oscar Vault come si deve e quindi titoli forti di qualche anno fa come Binti e Ancillary hanno perso l’onda giusta, o forse romanzi fortemente radicati nel genere non sono in cima alle priorità promozionali dell’editore.

All’epoca di The Bone Season (2013) il fenomeno booktube in lingua inglese si stava ancora strutturando e bookstagram era ancora di là da venire. Il Priorato si trova invece davanti una nicchia già pronta e ricettiva, che se stimolata a dovere con copie agli influencer giusti, post sugli account ufficiali e blog tour, si premurerà di accaparrarsi una copia e dare una propria opinione in merito. La novità del 2020 è che nel comparto SFF una nicchia social c’è, per quanto piccola, anche in Italia.
Scorrendo un po’ le paginate di videorecensioni e post a riguardo si nota come spesso titoli e miniature abbiano una chiara connotazione negativa, divisi tra hype disatteso e stroncature varie. È un segnale che va interpretato: infatti per titoli (letterari e non) popolari una posizione forte e negativa paga sempre in termini di visibilità. Non è un caso che i più noti influencer letterari di booktube Italia vedano come loro contenuti più di successo rubriche di stroncatura di titoli, tra il serio e il faceto. Io stessa percepisco che quando c’è aria di stroncatura sul blog o sul canale, c’è molta attesa: le stroncature divertono, le stroncature dividono forse, ma soprattutto appassionano. Le stroncature pagano in termini numerici.
In questo caso però parte della reazione negativa non sembra una mossa calcolata, ma una risposta autentica a una presentazione editoriale che per impegno faceva presagire qualcosa di meglio. Il punto è proprio quello: giunta al suo secondo lancio, Shannon manca ancora di mostrare chiaramente i motivi letterari per cui si investe tanta fiducia e denaro nella sua carriera.

La premessa del suo romanzone autoconclusivo (o tre in uno) s’inserisce appieno nel filone molto apprezzato delle rielaborazione di miti, fiabe e leggende, dove il folklore viene aggiustato in chiave femminista, queer o talvolta usato per dare quel tocco sempreverde di esotismo a buon mercato. Shannon fa tutte e tre le cose. Il priorato dell’albero delle arance dovrebbe essere innanzitutto una rielaborazione della leggenda cristiana di San Giorgio che uccide il drago e salva la fanciulla. Nel mondo tutto al femminile del Priorato, gli ordini religioso magici del titolo sono fondati e sostenuti da donne, i regni diventano reginati e anche i corpi militari e la criminalità hanno come figure apicali donne. Questo matriarcato generalizzato però non porta a nessun cambiamento sostanziale in questa fantasocietà medioevaleggiante, con qualche tocco arabo-magico e un intero continente in cui si fondono senza soluzione di continuità influssi vari dal sud est asiatico. Tanto è vero che uno degli snodi focali del romanzo è il matrimonio e la gravidanza a cui è costretta la regina di Inys Sabran per mantenere il potere sul suo millenario reginato.

Diviso tra Oriente e Occidente e tra letture diverse di quanto successo nell’epico scontro che mille anni prima ha messo a dormire un terribile drago Senza nome, il mondo del Priorato sembra lacerato oltre ogni possibile ricongiungimento sulla questione dei draghi. A Ovest li considerano creature empie e immonde portatrici dell’orribile morbo draconico, a Est venerano la varietà d’acqua che collabora con gli umani e che ha contribuito alla prima sconfitta del Senza Nome. Nel mezzo c’è un Oceano vastissimo e tempestoso, pericolosissimo da valicare per i pirati che lo percorrono e le cui acque nere e calmissime (ma non era tempestoso?) sovrastano il centro nevralgico dell’epica battaglia finale. Un oceano quasi invalicabile, ma che viene continuamente percorso dai nostri personaggi. Continenti lacerati da credenze diametralmente opposte e che non comunicano, ma che hanno commerci e contatti continui e tutto sommato non ci mettono molto ad allearsi contro un nemico comune.

L’enorme complessità che le mappe e le pagine del Priorato anticipano di fatto non c’è. La lettura – invero molto faticosa – delle prime trecento pagine viene spesa per fare un po’ di chiarezza sul posizionamento di luoghi e personaggi, ma spiegata a posteriori appare in tutta la sua semplicità. Non c’è la complessa rete di relazioni politiche tra regni di una Westeros, non c’è un nuovo modello sociale costruito da zero come sulla Luna di Ian McDonald. Di fatto è solo il Reginato a venir descritto del dettaglio: alcuni regni sono presenti solo sulla mappa e in un paio di citazioni del romanzo. Non c’è nemmeno tutta questa abissale differenza tra Occidente e Oriente, perché sotto tutti i loro orpelli estetici e tradizioni esotiche contrapposte, i personaggi hanno tutti lo stesso sapore di eroina indipendente e protagonista in odore di Social Justice.

Il libro si alterna tra quattro punti di vista differenti, due a Oriente e due a Occidente (anche se il libro è molto più sbilanciato verso Ovest), due maschili e due femminili. Lord Arteloth è l’amico etero dei POV gay del romanzo, in un affascinante ribaltamento di quello che fu l’amico gay nelle comedy anni ’90 come Sex & the City. Perfetto, belloccio e assolutamente privo di qualsivoglia mordente, nel passaggio da spalla gay a etero ha perso anche l’utile sagacia propria del ruolo amicale ingrato. Già più interessante è l’alchimista esiliato dalla regina Sabran a Est di nome Niclays, anche solo perché con la sua pancia, le sue rughe e la sua indolenza è tra i pochi a scampare il καλὸς καὶ ἀγαθός imperante in questo romanzo.
Infine ci sono le due protagoniste contrapposte e complementari: Ead, la maga guardia del corpo di Sabran infiltratasi sotto copertura come damigella a corte e Tané, la guerriera che sogna di combattere al fianco di un drago d’acqua.

Una volta capito a quali personaggi Shannon tenga, ogni possibile colpo di scena è quasi annullato. Ead è un personaggio affascinante (seppur esagerato nella sua infallibilità fisica e morale) perché Shannon ne scrive con piacere e ha bisogno di lei. Tané invece è avvolta da un ascetismo morale e carnale che denuncia chiaramente quanto l’autrice non sappia cosa farsene di lei: più avanti scopriremo che è l’involucro di un MacGuffin davvero mal inserito e gestito nelle fasi avanzate della trama. Shannon sembra finire la benzina a poco più della metà del suo romanzone, dopo aver speso tantissimo per avviarlo. Nella sua conclusione l’epicità risolutiva manca quasi del tutto e vengono affrettate tante trame che avevano molto più potenziale di quelle battute per centinaia di pagine.

La scrittrice crea quasi involontariamente dei personaggi femminili davvero carismatici e interessanti, tra cui la strega Kalyba, la giovane dama Truylde e l’imperatrice dei pirati. Liberi dal peso morale di essere modelli di virtù contemporanee, questi personaggi secondari hanno dalla loro una libertà di fare e dire cose riprovevoli che li rendono più vividi e adulti rispetto all’aria di rettitudine adolescenziale che aleggia sui protagonisti putativi. Shannon ancora una volta si dimostra incapace di gestire la sua stessa prole narrativa e finisce per mettere da parte malamente o rovinare gli spunti migliori che si trova per le mani. Niclays rimane forse il personaggio più riuscito, appesantito però dalla sua quota di queerness di default.
Così come gli abitanti di regni agli antipodi geografici e culturali finiscono per somigliarsi tutti tra di loro, così anche l’omosessualità dilagante in questo romanzo suona in più punti quasi come una caratteristica morale migliorativa, quasi uno status quo. Se non altro le entusiastiche reazioni a questa rivoluzione nel genere high fantasy lette un po’ ovunque a riguardo confermano quando lo stesso nella percezione del lettore italiano nasca e finisca con Tolkien, con poderosi inserti young adult. Come se l’omosessualità non fosse già spuntata da decenni nel genere e con risultati più coerenti e con un qualche connessione con il reale. Di nuovo a livello letterario Il priorato dell’albero delle arance non fa davvero nulla di nuovo già ai miei occhi, che high fantasy lo frequento di rado: figuriamoci per gli appassionati veri e propri.

Il priorato dell’albero delle arance, per riscontri social, sembra un discreto successo fantasy sia nel mondo anglofono sia in quello italiano. Se non proprio per contenuto delle recensioni, quantomeno per numero. Ma. Se la spaccatura su cui il romanzo vive è meno profonda di quel che Shannon vuole farci credere, quella tra nicchia SFF social e zoccolo duro e tradizionale di lettori di genere sembra allargarsi sempre più a ogni caso editoriale dopato. Tanto che nel mio lungo elenco di siti, blog, forum e newsletter di riferimento (il web 1.0, la vecchia guardia) Il priorato nemmeno è apparso sul radar, perché la stessa modalità di lancio di cui è stato oggetto l’ha fatto catalogare come uno young adult commeciale; se non di nome, di fatto.

Samantha Shannon

In questo caso la pregiudiziale non è nemmeno così errata: l’immaturità autoriale di Shannon si sente tutta e il risultato non sembra in grado di soddisfare un pubblico in cerca di complessità autentiche, non date da arzigogoli estetici. Qua e là del buono c’è, ma la soluzione per tirare fuori un romanzo migliore è evidente sin dall’avvio, appesantito dall’inutile complicazione orientale. Se Shannon è naturalmente attratta dall’Occidente e più propensa a scrivere di Ead e Sabran, perché mettere in piedi un Oriente che è un esilio non solo per Niclays ma anche per il lettore dalla storia che veramente funziona e interessa? Se fosse lungo la metà e dimezzasse i suoi personaggi, Il priorato dell’albero delle arance sarebbe più incisivo e a fuoco e varrebbe la lettura. Anche nella libertà e nella noia della quarantena forzata di questi giorni, il suo valore è troppo diluito su un monte pagine eccessivo per consigliarne la lettura.

Perché mi ci sono imbarcata o non ho mollato prima, direte voi? Perché sono curiosa e testarda, perché voglio tenere il polso di entrambe le nicchie per tentare di far passare i migliori rappresentanti di ciascuna nel campo opposto. È un po’ la situazione in cui si ritrova anche Oscar Vault, etichetta che in Italia gestisce romanzi SFF diversissimi per pubblico, scopo, risultato ed editore originario. Far convivere sotto lo stesso tetto Il Priorato, Binti, Ancillary, Luna, Arthur C Clarke e Lovecraft è un’impresa improba, soprattutto per chi viene da decenni di mancata comunicazione con il pubblico. Ha senso puntare su titoli che risultino meno indigesti per una platea di partenza diffidente, che nel comparto ha fatto le sue letture infantili e adolescenziali formative, da adulto ha letto poco eppure ha granitiche convinzioni a riguardo. Eppure facendo succedere autrici come Shannon e lanciando nel buio titoli gemelli come quello della Novik o proposte letterarie decisamente più articolate come la trilogia di Ann Leckie, si sta comunque plasmando il pubblico SFF di riferimento e le sue aspettative.

Intanto nell’altra nicchia, quasi ignorato e ancora inedito in Italia, c’è un romanzo che fa tutto quello che Samantha Shannon vorrebbe essere in un terzo delle pagine e con risultati qualitativi ed evocativi incomparabili: A Stranger in Olondria. Se non avessi letto quell’autentico gioiello letterario, forse non mi infastidirebbe così tanto il tentativo di farci credere che il meglio che possa dare high fantasy sia un libro che ti inchioda alle sue mappe per tentare di capirci qualcosa. Quella all’inizio del libro di Sofia Samatar non l’ho mai consultata, eppure la mappa di Olondria ormai me la porto dentro. Per questo continuo a credere che i libri fantastici davvero ben scritti le mappe te le disegnino soprattutto nella memoria.

Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon, Oscar Vault, 816 pp., 26 euro

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Questo articolo è apparso in origine sul blog di Elisa Giudici, Gerundiopresente



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