Il panorama americano dei comics sta cambiando, ormai da tempo. La Image è a pieno titolo una terza forza che condivide quote di mercato e spazi sugli espositori a Marvel e DC Comics. Il successo della terza major, caratterizzata dall’indipendenza creativa ed economica dei suoi autori, è diventato un modello a cui in molti cercano di ispirarsi.

Fondata nel novembre 2018 da Axel Alonso e Bill Jemas, ex scuderia Marvel, e Jonathan Miller, tra gli sviluppatori di Wikia (il servizio di web hosting, noto anche come Fandom, che colleziona guide su specifiche serie, opere, ecc.), AWA Studios è una delle piccole case editrici indipendenti che, negli ultimi anni, sono nate negli Stati Uniti. Il nome della società è una dichiarazione d’intenti, poiché è un acronimo dei termini artisanwriterartist: i tre fondatori hanno cercato di costituire un’azienda nella quale l’orizzontalità e la discussione prevalgono sulla verticalità e sul mercato. Un tentativo che, in un mercato schizofrenico come quello dell’editoria fumettistica statunitense, assume un valore maggiore. Una proposta che ha suscitato l’interesse di numerosi/e autori e autrici che, nel corso degli ultimi due anni, hanno scelto di unirsi alla casa editrice. È così che, nell’agosto 2019, la AWA ha annunciato la costruzione di un universo condiviso tra le sue opere.

In questa serie di analisi (che continuerà nei prossimi giorni) faremo su queste pagine una panoramica delle sue prime uscite nel corso di marzo 2020. A partire è il sottoscritto, che ha scelto di leggere e parlarvi di Hotell e Red Border. (Al momento non c’è ancora alcuna notizia riguardo alla possibile futura pubblicazione italiana delle serie AWA: per il momento potete leggere gli albi già disponibili su ComiXology. NdClod)

Hotell

La “route 66” è un topòs della cultura angloamericana, celebrata nelle più disparate opere: canzoni, romanzi, film, fumetti e videogiochi. Il “Pierrot Court Hotel”, vero co-protagonista della testata scritta da John Lees e illustrata da Dalibor Talijic, è uno dei tanti rifugi che sorgono ai suoi lati: a segnalarlo, per pochi/e selezionati/e ospiti, un cartello scalcagnato sul ciglio della strada. Come però avrete intuito, magari scorrendo le pagine che accompagnano la pagina di presentazione della serie, Lees e Talijic hanno deciso di rispolverare l’idea dell’hotel dell’orrore e ri-attualizzarlo. Per riuscirci, pur dovendo fare un compromesso verso la tecnologia (il classico “non c’è campo” che è un caso davvero raro), hanno deciso di ricorrere a una struttura dell’episodio che, da un lato, richiama famose antologie di genere – in particolare Twilight Zone/Ai confini della realtà – dall’altro, crea una continuity che si rafforza sempre più nel corso dei volumi.La principale forza dell’opera è proprio la cura con cui il racconto è costruito, narrato e concluso. I rimandi tra i singoli numeri sono pochi ma efficaci e, soprattutto, riescono a dare una sensazione di orizzontalità a tre storie che potrebbero essere totalmente indipendenti. Il dubbio che ho, però, è se gli autori riusciranno a concludere la vicenda nel quarto e ultimo volume. Perché se è comprensibile che una fiction di genere non ci dia risposte chiare, è altrettanto vero che sarebbe un peccato sprecare dei rimandi ben costruiti. Si corre il rischio di banalizzare la conclusione oppure di affrettarla eccessivamente.

Dando per scontata l’uscita di una seconda serie, riusciranno gli autori a tirare le fila del discorso nel corso dei soli quattro numeri di questa prima stagione? Lo scopriremo.

Red Border

Il confine che separa il Messico e gli Stati Uniti, come qualsiasi altro limes internazionale, non è un argomento di drammatica attualità: è, piuttosto, un altro topòs narrativo che riscontra un fortissimo legame con la realtà. La rappresentazione del confine e la sua narrazione, attraverso i racconti di chi lo attraversa, chi lo difende, chi ne sostiene l’esistenza e chi l’osteggia, chi prova ad attraverso, chi ne è vittima e chi ne è carnefice, ha coinvolto alcuni dei e delle più grandi autori e autrici angloamericani contemporanei. La serie, divisa in quattro volumi sceneggiati da Jason Starr e illustrati da Will Conrad, si presenta inizialmente come una tipica caccia all’uomo: il cartello di Juarez, per non meglio specificati motivi, è a caccia di una coppia di borghesi messicani. Braccati dalla malavita e impreparati alla situazione, Karina ed Eduardo decidono di tentare il tutto per tutto e oltrepassare il confine per il Texas. Nel farlo saranno aiutati da Tito, un ragazzo che sembra conoscere bene la zona, e da Raymond Colby, un cowboy statunitense.

 

L’ambientazione e ila narrazione subiscono un forte cambiamento nel passaggio dal primo al secondo volume: il ritmo progressivamente rallenta e la storia vira bruscamente dal thriller allo psico-thriller. Sullo sfondo, alcune venature politiche – sebbene la scelta di rappresentare una coppia della middle-class messicana sembri celare una certa “semplificazione” di alcuni aspetti e la descrizione della famiglia Colby richiami eccessivamente lo stereotipo dei “redneck” – che però lasciano ampio spazio all’azione e a riferimenti quasi orrorifici. Complessivamente la sensazione è che la storia stia virando verso il suo aspetto più pulp. L’incontro tra il cartello e la famiglia Colby sarà l’occasione per una pioggia di proiettili e di sangue, mentre nel frattempo saranno svelate le motivazioni che hanno portato alla caccia all’uomo di Karina ed Eduardo. Il rischio, però, è che l’intero cast risulti poco più che bidimensionale e funzionale a un finale granguignolesco.



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Dario Oropallo

Ho cominciato a leggere da bambino e, da allora, non ho mai smesso.

Anzi, sono diventato un appassionato anche di fumetti, videogiochi e cinema: tra i miei autori preferiti citerei M. Foucault, I. Calvino, S. Spielberg, T. Browning, Gipi, G. Delisle, M. Fior e S. Zizek.

Vivo a Napoli, studio filosofia e adoro scrivere. Inseguo il mio sogno: scrivere.

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