La rabbia è un’arma pericolosa in campo letterario: può amplificare la tua voce letteraria, può donare al tuo racconto la forza di superare i tuoi stessi limiti di scrittore, ma può finire per farti urlare addosso a quel lettore a cui stai disperatamente cercando di raccontare la tua storia.
I primi scritti di Nnedi Okorafor, la quarantaquattrenne scrittrice statunitense regina della scena letteraria di genere negli ultimi anni, sono letteralmente divorati dalla smania di denunciare la sistematica cancellazione della voce delle minoranze etniche dalla vita sociale e culturale degli Stati Uniti.
Con la premiatissima trilogia di Binti (che presto arriverà anche in Italia che è finalmente arrivato in Italia! Nd2019) qualcosa sembra finalmente essere cambiato

Non è difficile immaginare in quali esperienze sia incappata l’autrice di Chi teme la morte, scritto ancora acerbo della giovane penna di etnia Igbo. Da sempre convinta che la dimensione fantastica sia la migliore per filtrare la realtà del suo sentito sulla pagina scritta, Okorafor sin da suoi primi, acerbi scritti rivela l’energia di frizione di chi è sospesa tra l’abbraccio di una tradizione millenaria africana e l’attrazione verso quella statunitense, giovane, culturalmente seducente, dominante a livello globale ma verso respingente proprio verso chi ne incrina “l’immagine bianca” come Okorafor.

Il suo primo romanzo di livello – Laguna – nasce ironicamente dall’irritazione che causò all’autrice di origine nigeriana un film che ovunque in Occidente venne esaltato per la sua diversità. Nel 2009 District 9 di Neill Blomkamp venne lodato dai critici occidentali anche per come aveva saputo ambientare una storia fantascientifica e politicamente complessa nel continente sudafricano. Accorsa in sala al primo giorno di proiezione per vedere finalmente su grande schermo una storia africana, Okorafor assistette con rabbia e disgusto a quello che ai suoi occhi era un ritratto grottesco e barbaro del popolo nigeriano di cui ora talvolta sente di far parte, specie quando ne percepisce attaccata l’identità.

Mentre ne discuteva animatamente con una conoscente, Okorafor si è chiesta cosa succederebbe se gli alieni atterrassero per davvero in Nigeria: andrebbero a Lagos, è la sua prima reazione. Così gli alieni arrivano nella città nigeriana in Laguna, il primo romanzo capace di imporla all’attenzione del pubblico ristretto dei lettori di genere, certo, ma in maniera trasversale, anche oltre le file di quanti, per etnia, interesse o social justice, s’interessano di scritti di genere e di minoranze.

La vera svolta di carriera arriva però con la trilogia di Binti, che non solo la impone all’attenzione letteraria al di fuori della sfera SFF, ma promette di catturare l’attivo della raggiunta maturità stilistica.
Nata come una novella di poco più di un centinaio di pagine, Binti diviene ben presto il titolo SFF da leggere nel 2016, molto più dei romanzi di grido dell’annata, capaci solitamente di mettere in ombra le forme narrative brevi (pur centrali per la letteratura di genere).

Arriva il premio Hugo, segue a ruota il premio Nebula e una lunga lista di candidature per quello che non solo è un grande racconto, ma segna il primo momento di equilibrio nella forza dirompente e distruttiva che guida la penna dell’autrice. In Binti tutto parla di Okorafor, forse in maniera ancor più intima e personale che in passato, eppure per la prima volta l’autrice si pone alla giusta distanza dal suo scritto e scandisce con eleganza e pacatezza il suo messaggio.
L’esperienza di Binti, giovane donna di etnia Himba che infrange ogni tabù della sua tradizione culturale lasciando la terra per frequentare l’università Oomza lontana decine di universi, è quella di Okorafor e di chiunque abbia lasciato la sua casa alla ricerca di una nuova terra.

Il cambiamento è al centro dell’esperienza di Binti, declinato nelle sue forme più sublimi e drammatiche. Lasciando la sua casa e disobbedendo alla sua famiglia, Binti può esplorare ed affinare le suggestive doti matematico-meditative di cui è in possesso, ma il prezzo da pagare è altissimo. Non solo perché il suo viaggio spaziale coincide con il suo incontro con la violenza più brutale e insensata, ma perché segna la fine dell’esistenza di una casa come concetto permanente.
Come dice l’adagio, partire vuol dire morire: per quanto si spalmi l’argilla rituale otjize sul corpo e sul viso tutte le mattine, Binti è destinata a testare e ridefinire i limiti della sua cultura natale, sentendone acutamente la mancanza in un contesto così (letteralmente) alieno da rammentargliela ad ogni respiro.

L’adesione alla sua tradizione in un mondo in cui diviene insensata e ridondante la disorienta: quelle credenze all’ombra delle quali è cresciuta hanno un valore o è tempo di abbracciare una cultura dominata dal relativismo assoluto? Ha senso spalmarsi di otjize quando deve crearlo con un’argilla trovata sul nuovo pianeta e irrimediabilmente diversa da quella degli Himba? È giusto abbandonare così facilmente un segno di modestia ed eleganza che è radicato nella sua stessa concezione di persona e donna solo perché in mezzo a tanti sconosciuti appare vistoso e puramente cosmetico?

Il cambiamento di Binti deriva dal contatto con gli altri, dalle nuove connessioni sociali che crea. Dal frangente più durante il viaggio dalla terra a Oomzi Binti eredita a sorpresa un’amicizia così profonda da divenire quasi un rapporto sentimentale platonico, o per meglio dire asessuato. Lei, così estranea alla violenza, finirà per stringere un rapporto spirituale con Okzu, un rappresentante della razza delle Meduse, la cui intera cultura è basata su un codice di tipo militare e guerriero. In un passaggio geniale Okorafor trasforma l’ibridazione culturale della sua protagonista in un cambiamento fisico vero e proprio: Binti diviene un’eroina e portatrice di pace, ma lo scotto da pagare è la trasformazione della sua capigliatura nei tentacoli propri della razza delle Meduse, nella fine del suo essere al 100% umana e Himba.

Come spesso accade nella fantascienza (in quella migliore), una storia breve ben riuscita e molto premiata non è un punto di arrivo, ma casomai di partenza. Okorafor non ha intenzione di lasciare Binti così presto, non prima di averla riportata a casa in Binti: Home, la seconda novella del ciclo, pubblicata nel 2017. È passato un anno di studio universitario e di scambi quotidiani con Okwu e Binti si trova cambiata ma non per questo meno inquieta.
La giovane Himba è attraversata da sentimenti a lei estranei e polarizzanti: da una parte i tentacoli di Okwu le contaminano l’indole, rendendola brusca e reattiva a livello istintuale, dall’altra gli strascichi della carneficina ha cui ha assistito nel suo primo viaggio spaziale la costringono a un difficile recupero post traumatico fatto di attacchi di panico e fobie.

Binti decide allora di tornare sulla Terra, di ricucire i legami con la tradizione Himba e di ottemperare al tradizionale pellegrinaggio delle donne della sua tribù. Porta con sé Okwu per quella che dovrebbe essere una missione di pace.
La mossa al rialzo di Okorafor poteva essere rischiosa, invece ne certifica la piena maturità: non solo Binti: Home ha motivo d’esistere non essendo un sequel pretestuoso, ma riesce ad ampliare il respiro già a pieni polmoni del coming of age spaziale dell’eterna pellegrina Binti. Al ritorno  a casa infatti la famiglia e la popolazione Himba, da sempre derisa e discriminata per la propria tradizione orgogliosamente arcaica, applica lo stesso pregiudizio che subisce dalle altre tribù alla giovane traditrice.

L’unico vero limite di Binti: Home è quanto sia dipendente da Binti e privo di una conclusione vera e propria, perché a seguirlo si sa già arriverà a stretto giro la terza e ultima (?) parte della storia. Monco di finale, Binti: Home talvolta lascia che sia la storia a guidare le azioni dei protagonisti, le cui azioni e reazioni deviano verso una vaga pretestuosità nella sua parte conclusiva.

Con la sua rabbia inestinguibile, per quanto giustificabile, Nnedi Okorafor non ha ancora fatto davvero i conti ed ecco che con Binti: The Night Masquerade l’equilibrio faticosamente raggiunto si rompe e l’autrice torna ad essere ostaggio della foga con cui vuole denunciare e puntare il dito. La chiusa della storia di Binti è uno sfregio su quanto di lodevole letto finora, un disastroso mescolarsi di buone intenzioni, pessima fattura letteraria e social justice militante.

Gli stravolgimenti di The Night Masquerade – una novella che inizia in media res luttuoso così trascinato per le lunghe da diventare un insostenibile piagnisteo – sono colpi di scena meschini e di fattura volgare, per giunta incapaci di generare il dramma sperato. È così palese l’affezione di Okorafor per i suoi personaggi che il lettore è scettico nel credere a quanto stia avvenendo e, se ne viene convinto, è solo perché si aspetta che l’autrice non ricorrerà a simili mezzucci per mettere fine alla storia di Binti.

Se questo capovolgimento è mal sopportabile una volta – sappiamo sin da subito che ci sarà un inghippo che risparmierà a Binti un altro atroce dolore perché Okorafor non sa celare le sue intenzioni – alla seconda diventa diventa una farsa, come quella mascherata di cui è a sua volta vittima Binti come personaggio. Ecco quindi spuntare riti sciamanici e tradizioni millenarie che nessuno ha mai citato prima eppure sono vitali per la cultura Himba. Ecco che Binti da personaggio la cui straordinarietà risiede nell’essere sopravvissuta e cambiata a esperienze travolgenti diventa la prescelta dalle doti sovrumane. Quel poco di rivoluzionario che era avanzato – con il bellissimo rapporto di difficile definizione con Okwu – viene spazzato via dall’introduzione tardiva di un love interest umano e eteronormato.

Se l’affetto di tanti lettori per Binti e i suoi compagni di viaggio hanno mantenuto la sua popolarità sostanzialmente inalterata, a livello letterario non si può che rimanere rammaricati da come Okorafor si faccia agguantare dalla sua rabbia cieca proprio sulla linea del traguardo. La trilogia di Binti – che verrà proposta e tradotta da Oscar Mondadori nei prossimi mesi che nel frattempo è stato pubblicato da Oscar Mondadori – rimane comunque una lettura quasi imprescindibile del panorama fantascientifico contemporaneo e che indubbiamente saprà conquistare il cuore dei lettori di genere e non. Purtroppo però il suo arco narrativo rivoluzionario poteva disegnare il profilo di un’autrice finalmente matura, invece traccia della rabbia inestinguibile di un’America continua a dirsi inclusiva ma a respingere ciò che è diverso.

Chi teme la morte è edito in Italia da Gargoyle Books (2015), Laguna è pubblicato da Zona42 (2017).

L’editore statunitense di Binti mi ha fornito a titolo gratuito una copia delle tre novelle per redigere un’onesta recensione; quella che avete appena letto.


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