buffy rewatch

Ho sempre avuto una gran voglia di scrivere qualcosa su Buffy, ma la trattazione della serie è così vasta, talmente di qualità – i cosiddetti Buffy Studies – che mi sono sentita di troppo e ho evitato. Complice la quarantena che mi ha regalato tanto tempo, e la lezione impartita con le cattive dalla pandemia – è meglio fare quello che ti piace quando ne hai l’opportunità perché il mondo potrebbe finire anche domani! – ho deciso di regalarmi un rewatch della serie con annesso blog in cui coprirò tutte le puntate: per alcune ci sarà una recensione in piena regola, per altre un commento, ma l’obiettivo è di scrivere qualcosa per tutte. Questa è la recensione del doppio episodio Wellcome to the Hellmouth e The Harvest con annessa breve introduzione alla serie. Il blog lo trovate qui.

 

La serie si presenta subito con un duplice ribaltamento di uno dei cliché cari al genere horror: la ragazza, meglio se bionda, vittima indifesa del mostro di turno. In questo caso la prima presenza femminile che aderisce apparentemente a tutti i tropi del genere è in realtà il predatore, mentre la successiva biondina che potrebbe dare a intendere di essere la vera vittima predestinata dopo il twist del cold open è in realtà la cacciatrice del predatore. Ecco così stabilito il tono e l’intento.

Anche Cordelia è inizialmente presentata in modo volutamente fuorviante, viene infatti introdotta come una ragazza premurosa e accogliente nei confronti della nuova arrivata ma ben presto anche lei svela la sua natura da predatore, di quel particolare tipo che va sotto il nome di queen bee e che non trovi nei cimiteri ma in tutti i licei. Non a caso, più avanti nella serie (Homecoming 3×05), sarà proprio Cordelia a far notare a Buffy che quando si è sul territorio scolastico in lotta per la popolarità, tra le due, è lei la vera slayer.

Il pilot è tutto incentrato sulle apparenze da smascherare e sulla necessità di riconoscere il male, in quest’ambito curiosamente sia Cordelia che Giles tentano di istruire Buffy allo scopo: Cordelia le consiglia sviluppare le doti necessarie per individuare a una prima occhiata quello che per il suo sistema di valori è il male da scongiurare, i losers, mentre Giles la esorta a fare altrettanto anche se, ovviamente, con i vampiri. Ma lo smascheramento più importante spetta allo spettatore che non deve lasciarsi ingannare dall’aspetto da teen drama in salsa horror, ed andare molto più in profondità. Il linguaggio usato è il primo chiaro segnale rivelatore di una natura decisamente più strutturata.

In tema di linguaggio, un’altra serie aveva presentato un modo diverso di far parlare gli adolescenti, Dawson Creek, ma come aveva notato l’agente di Kevin Williamson “It sounds like all these kids are psychology majors. It doesn’t ring true”. In quel caso un registro proprio di un altro contesto era stato calato dall’alto sui personaggi, al contrario in Buffy il linguaggio è stato forgiato ed elaborato specificatamente per la protagonista: Buffy è autentica nella sua riconoscibilità, il personaggio definisce il linguaggio tanto quanto lei stessa ne è definita, cosa che dipende direttamente dal fatto che quando parliamo di creatore di una serie, nel caso di Whedon è biblicamente vero, la serie è l’emanazione del suo verbo: “The speech of Buffy and her friends is an amplified version of his own speech [..] the Buffy writers inevitably end up not only writing like Joss, but talking like him as well” (Slayer Slang, Michael Adams).

Al primo momento d’azione avviene la posa di una delle colonne portanti del personaggio Buffy: il PUNNING. Con grande consapevolezza di sé stessa dirà Buffy successivamente “If I was at full slayer power, I’d bpunning right now.” (Helpless, 3×12). Le scene di combattimento, infatti, sono in realtà i resti del banchetto, il piatto forte è sempre il linguaggio e il suo utilizzo. Quando Buffy, nel primo episodio, si trova ad affrontare i vampiri nella cripta la vediamo in azione per la prima volta e quello che ci viene presentato è una protagonista irridente e ironica che, prima ancora di iniziare a sferrare calci, depotenzia la minaccia da affrontare derubricandola a bersaglio di una serie di punchline. Il linguaggio non è solo un mezzo per rappresentare la realtà, ma anche uno strumento per plasmarla e alterarne la percezione: il vantaggio strategico di Buffy si realizza non appena la slayer inizia a parlare modificando in questo modo la percezione della realtà e del pericolo. Così facendo, prima Buffy afferma la superiorità del suo armamentario linguistico e, solo dopo, procede al rito delle scene d’azione che va detto, sono quello che sono essenzialmente per mancanza di soldi, ma per affetto non tornerò MAI PIU sulla questione.

Prima però di arrivare al punto in cui Buffy si attiva per salvare i nuovi amici, si passa per l’inevitabile fase propria di ogni percorso supereroistico: quella della negazione/rifiuto del proprio destino. Buffy in effetti non vuole essere la slayer, ma non è il timore di non essere all’altezza a motivarla, né una generica paura. Buffy, lucidamente e chirugicamente, smitizza il ruolo dell’eroe con annesso tormento filosofico essenziale, perché la ragazza oltre che impenitente è estremamente pragmatica: Giles, il suo osservatore, non le sta chiedendo di evitare che il male trionfi, le sta chiedendo di andarsi a suicidare per salvare il mondo. Dal punto di vista della protagonista sarebbe molto più appropriato che fosse proprio lui, un uomo adulto e molto più informato di lei, ad andare là fuori ad affrontare il pericolo anziché pretendere il sacrificio da una ragazzina di 16 anni che ha il sacrosanto diritto di studiare, avere un rapporto onesto con sua madre, avere delle amiche con cui parlare di ragazzi… vivere insomma.

Il tema del sacrificio e della predestinazione tornerà più volte nel corso della serie, e già nel quarto episodio della seconda stagione – Inca Mummy Girl – ad esempio, verrà posto l’accento su come dalla notte dei tempi si sia visto nelle giovani ragazze innocenti il mezzo ideale per compiere un sacrificio, e come siano stati invariabilmente uomini adulti a stabilirlo, assunto e sistema che Buffy scardinerà e sovvertirà in futuro.

Parentesi. Le cacciatrici sono sempre ragazzine, nel corso del tempo si intuisce il perché. Steven DeKnight (Spartacus, Angel, Daredevil), uno degli sceneggiatori storici della serie si è unito alla writing room a partire dalla quinta stagione. Fino a poco prima, nonostante il desiderio di scrivere per la tv, aveva lavorato in tutt’altro campo perché in qualche modo doveva pur mantenersi, finché per una serie di circostanze decide di provare la carriera televisiva e di scrivere uno speculation script.

Lo spec script è una sceneggiatura di prova che si sottopone all’attenzione dello showrunner per dimostrare come si scrive e quanto si è in sintonia con la serie a cui si vuole lavorare. Gli show preferiti di DeKnight all’epoca erano NYPD Blue e Buffy, la scelta cade su Buffy e lo script in questione si intitolava “Xander the Slayer”. Nella storia i poteri di Buffy si trasferiscono su Xander il quale inizialmente cerca di essere all’altezza del compito, ma via via cede alla seduzione del suo nuovo status abusandone egoisticamente. Il punto della storia era sottolineare che le cacciatrici sono invariabilmente donne perché più inclini al bene comune e meno suscettibili, al contrario dell’uomo, di cadere vittima del potere. Nella sceneggiatura di DeKnight, infatti, il trasferimento dei poteri non è casuale, ma fa parte di un preciso piano di alcuni demoni consapevoli di non essere in grado di avere la meglio su Buffy, ma piuttosto sicuri di averla su Xander.

Ma tornando in puntata. Le peculiarità dei personaggi, le dinamiche del gruppo, e le tematiche della serie sono già tutte presenti nelle prime due puntate insieme a un altro marchio di fabbrica di Joss Whedon: l’eliminazione a sorpresa di un personaggio principale, e questo più di vent’anni prima che arrivasse Game of Thrones a sconvolgere le tenere certezze di noi spettatori. Whedon, nel corso della serie, opterà anche per un’altra morte decidendo però di mantenere nei titoli di testa il nome dell’interprete per indurre negli spettatori un mal riposto senso di comfort. Qui, in The Harvest, il piano gli riesce a metà: il nome dell’interprete non compare nei titoli perché la produzione non aveva soldi a sufficienza per rieditarli.

Infine la sequenza conclusiva di The Harvest con l’ironico “We are doomed” di Giles suggella la creazione della scooby gang, e imposta il tono dei dialoghi sempre pervasi da un’ironia che serve a tenere a bada la persistente sensazione di essere a un passo dalla fine. Il doppio pilot funziona perfettamente anche nel suo compito più arduo – considerata la novità – ovvero affermare la centralità indiscussa di Buffy quale leader del gruppo. 

La Slayer non è dunque la declinazione femminile dell’eroe maschile, e Whedon è stato ben attento a evitare tutti i connaturati cliché narrativi: Buffy non è motivata da una vendetta personale, non ha peccati da espiare, non ha un passato da redimere, un amore tormentato da dimenticare, né le sue azioni sono dettate da daddy issue, base psicologica per l’eroe moderno in una sconfinata produzione letteraria, televisiva e cinematografica. Buffy è la chosen one destinata a sovvertire tutti i tropi narrativi che vogliono le figure femminili marginali, stereotipate, definite dall’essere madri o fidanzate, mascolinizzate per essere leader credibili. Buffy è la vittoria delle donne.

Nota

Le sette stagioni di Buffy sono disponibili in Italia su Amazon Prime a partire dal 1 settembre 2020.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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