Paesaggio artificiale standard
Per tutta la mia vita è come se non fossi stato in nessun altro luogo che a Padova. Il che è strano perché in effetti non ci ho mai messo piede. È un dejà vu che nasce sfogliando Padovaland di Miguel Vila, passando in rassegna le torri acquedotto, i centri commerciali, le villette con piscina, i nani da giardino, una carrellata di immagini che messe in fila formano un paesaggio onnipervasivo, in grado di colonizzare luoghi e anime. Questo paesaggio è la provincia italiana e ha quel curioso effetto non desiderabile di riuscire a spegnere ogni scintilla di curiosità intellettuale.
Là dove l’ennesimo supermercato ruba spazio a una libreria o a un qualsiasi luogo di cultura e aggregazione, si compie l’egemonia del nulla, che svuota la vita di ogni significato. Per dirla con Niccolò Carradori “La provincia è quel luogo dal quale, se ci nasci, non puoi fuggire davvero”. Vila ci consegna un ritratto lucido dal piglio quasi neorealista di questo particolare habitat raccontando le vicende di un gruppo di ragazzi alle prese col disagio che si cela dietro una quotidianità fatta di gite al supermercato, feste di laurea e spritzini. Forse ricorderete la storiella dei pesci rossi di David Foster Wallace – ma se non ve la ricordate, potete rimediare ora – ecco: se il vecchio pesce rosso passasse da Padova, finirebbe per ubriacarsi di Prosecco e dimenticare tutto ciò che credeva di sapere sull’acqua.
C’è una scena dove Giulia (una delle protagoniste) mostra delle fotografie al suo relatore e questi le domanda il motivo dietro la scelta dei soggetti di quegli scatti – depositi dell’acqua, perlopiù. La ragazza gli risponde “sarebbero sempre architetture della periferia veneta…”. “Perché veneta?” le domanda il professore, “ha controllato se non ci sono anche in Sicilia?”. La conversazione si conclude con il professore che le suggerisce di tornare la prossima volta con le idee più chiare.
Il fatto è che, in quel contesto, forse è davvero impossibile avere le idee più chiare di così. La stessa Giulia, qualche pagina più avanti, ci dà la sua interpretazione di “spazio naturale”, spiegando che, a ben vedere, neanche gli antichi argini e il canale hanno alcunché di naturale, in quanto opere architettoniche dei veneziani. Giulia, va detto, non ha tutti i torti. Il punto della questione non è cosa sia davvero autoctono – discorso che comunque poggia su basi a dir poco malferme, che si parli di architettura o di questioni etnoculturali – e nemmeno se un canalone di cemento sia più bello di un acquedotto romano. Il punto è la necessità di una consapevolezza, di un senso critico e di una sensibilità che permetta di non subire passivamente la vita, ma di saperne cogliere le sfumature e formarsi un’opinione sulle cose che ci circondano. Insomma, per riprendere ancora DFW, capire che “questa è l’acqua”.
C’è poi un altro episodio significativo che riguarda Fabio e il suo ospite straniero, Daan. I due si recano in visita alle bellezze architettoniche di Padova, ma Fabio si rivela essere una pessima guida, non riuscendo a dare alcuna risposta alle domande del suo ospite. Daan, in assenza di un riferimento che lo aiuti a orientarsi nel contesto in cui è arrivato, non può che abbandonarsi alla deriva del cazzeggio internettiano; basta osservare le schermate del suo cellulare: solo cazzate. D’altro canto, Daan potrebbe usare lo smartphone per cercare le informazioni che gli servono, ma non lo fa. Lui stesso viene travolto dall’egemonia della banalità del cui funzionamento questo episodio rappresenta una sorta di esperimento in vitro.
E Silvia come sta?
Giulia scatta delle foto: gocciolatoi, cucce di cane, babbi natale appesi ai balconi. Si sta per laureare, punta alla lode. La sua vita è un lenta deriva verso le nebbie dell’apatia.
Irene, 24 anni, lavora come cassiera. Bullizzata e calunniata dalle colleghe, ha un rapporto difficile con il proprio corpo, oltre che con l’ambiente gretto in cui è costretta a vivere.
Fabio è il fratello di Irene. È un imbranato relazionale, del tutto scollegato da qualsiasi gruppo sociale. Soffre per la sua condizione e ogni nuovo tentativo di socializzazione non fa che peggiorare le cose e spingerlo sempre più ai margini. Beve troppo anche per un veneto.
Nicola è l’immagine speculare di Fabio. Perfettamente inquadrato nel ruolo del meridionale guascone, furbo e piacione. Nasconde un segreto assurdo quanto esilarante.
Catia. Instagram è il canale da cui trasmette felicità e sensualità nonstop. Odia tutto questo, odia come la vedono gli altri, e tuttavia non riesce a smettere di aggiornare il suo profilo. Andarsene? È un’opzione, certo. Ma si può davvero sfuggire alla provincia?
La narrazione di Padovaland prende forma dalle storie personali di questi cinque ragazzi e di tutta una fauna di periferia con il suo grosso carico di meschinità, ognuno con i suoi segreti da nascondere, fratture nelle loro identità artificiali da tenere segrete. In un contesto dove regna la totale omologazione, mostrare un carattere di individualità non farebbe che esporre alla derisione altrui e all’emarginazione dal gruppo sociale d’appartenenza.
Se tutta la vita non è che un viaggio alla ricerca di un’identità, nella vita ai tempi dei social network – dove l’attenzione è rivolta sempre verso se stessi e l’instaurazione di relazioni sociali è solamente un’illusione – l’identità diventa un oggetto posticcio e fondamentalmente scisso.
Tutti fingono di essere qualcosa d’altro solo per essere accettati e sentirsi infine realizzati e felici. Ma ciò non potrà mai avvenire, perché questo sistema non fa che produrre personalità disgiunte tra ciò che si è e ciò che si mette in scena. La vita, ridotta a funzione del consumismo spettacolarizzante, viene vissuta col solo scopo di produrre stati da pubblicare sul proprio profilo: la laurea e la relativa festa, il moroso e altri frammenti di felicità posticcia che compongono un reality show senza fine dove ognuno sperimenta gli effetti tossici della celebrità. L’infelicità deriva proprio dal fatto che quelle vite non sono vissute per davvero. Tutti fingono di essere qualcun altro al solo scopo di essere accettati. Se cogliete una nota di biasimo in quanto scritto me ne scuso, ma forse non sono stato abbastanza chiaro: il disagio raccontato da Vila è lo stesso disagio di noi tutti e poco importa che veniamo o meno dalla provincia: le vecchie mura hanno ceduto, la provincia ormai è ovunque.
Stile
Lo stile, mondato da ogni genere di orpello, non sacrifica nulla in fatto di espressività. Il riferimento è quello piuttosto ovvio di Nick Drnaso: lo ricorda nel tratto, nell’uso dei colori, finanche nel vezzo narrativo di riferirsi a un personaggio che di fatto non appare mai. Diverso, invece, è il layout delle tavole, meno ancorato al modello griglia e libero di allargarsi quando il momento richiede un’ampia vista a volo d’uccello, o di stringersi per concentrarsi su un piccolo dettaglio anatomico.
Talvolta le vignette si modellano in modo da rappresentare un significato preciso: un catalogo di oggetti, delle app su un telefono, icone, foto: le festa di laurea, i selfie in piscina, i party, i pellegrinaggi al supermercato, valanghe di stereotipi su stereotipi. La scelta di disegnare linee semplici e l’impiego di colori piatti contribuiscono per un verso a creare un aspetto artificiale – un po’ come un catalogo di oggetti, per capirci – e per un altro evidenziano dettagli che completano la narrazione e permettono di comprendere in maniera più chiara i risvolti della trama.
Lo stile narrativo essenziale richiama quello di Raymond Carver – cui peraltro si rifà lo stesso Drnaso – rivela il ritratto della periferia abbrutente dove una vita senza prospettiva è l’unica prospettiva per le nuove generazioni. Neanche poi così nuove, in effetti. Che disastro.
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