Alla fine di una proiezione di First Man al Festival di Toronto, segnata da applausi svogliati, il giornalista seduto di fianco a me, di cui non posso rivelare paese e testata, mi ha chiesto: “What’s the point?”.
Forse basta una domanda simile a riassumere l’ultimo film di Damien Chazelle, due anni dopo il successo di La La Land che (grazie a Dio) mancò per un soffio l’Oscar per il miglior film pur avendo vinto quello per la regia. Dove vorrà arrivare?
Dopo le ossessioni della Stone per il sogno del cinema e di Gosling per il jazz, qui va in scena un’altra ossessione: quella di Neil Armstrong (di nuovo Ryan Gosling), l’astronauta americano che fu il primo uomo a mettere piede sulla Luna.
Chazelle, però, sceglie di guardare da un’angolatura quasi inedita alla missione dell’Apollo 11, che nel 1969 portò Armstrong sulla Luna insieme a Buzz Aldrin mentre Michael Collins rimaneva a bordo del Modulo di Comando. Concentrandosi sul privato dell’uomo e sul dolore dietro la sua umile, ma tenace ostinazione: quello causato dalla perdita di una figlia. Dopo aver avuto il primogenito Eric e prima di avere il secondo figlio Mark (entrambi erano a Toronto con il regista e il cast), Armstrong e la prima moglie Janet ebbero infatti Karen: la bimba morì di polmonite prima dei tre anni, consumata da un tumore maligno che la radioterapia non riuscì a sconfiggere.
Un lutto da elaborare che lo sguardo del regista sceglie come matrice della sua storia.
First Man, però, finisce per essere un film pallido, devitalizzato. Evita la magniloquenza trionfalista nel celebrare la vittoria americana nella corsa alla Luna contro i russi, ma impoverisce il risultato con un focus troppo ristretto sulla ferita dell’uomo e sui suoi tentativi di guarirla.
Girato in pellicola e senza green screen, il film indugia spesso sui volti dei suoi personaggi con l’artefatto tremore della camera a mano ed esibisce il voluto effetto sgranato di chi non lavora in digitale. Difficile coglierne il senso, però.
Così, Chazelle procede per buona parte di First Man senza scosse e senza guizzi, in una plumbea infilata di sofferenze. Il funerale della piccola Karen. Il terrore per i rischi cui le missioni nello spazio espongono, esemplificati dalla fallimentare missione Gemini 8 durante la quale fu sprecato il 75% del carburante per frenare un inopinato, pericolosissimo ruotare del modulo capitanato da Armstrong. L’incidente dell’Apollo 1 nel gennaio del 1967, che costò la vita agli astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee.
Un film quasi tetro. Gli dona il primo rigurgito di vitalità la prova di Claire Foy nel ruolo della moglie di Armstrong, quando costringe il marito a parlare apertamente con i figli dell’eventualità che non faccia ritorno dall’Apollo 11, la sera prima della partenza.
La pellicola sembra impennarsi, finalmente, quando la missione che porterà all’allunaggio inizia. Ma di nuovo il regista stringe troppo il campo: taglia fuori tutti i personaggi di contorno, eliminando anche i contatti fra gli astronauti e la Terra, trasformando il viaggio verso la Luna in un percorso interiore di elaborazione del lutto. Il momento clou dell’allunaggio, in First Man, è infatti quello in cui Armstrong getta in un cratere della Luna un piccolo bracciale, ultimo ricordo della figlia scomparsa. E il finale, piombando in maniera improvvisa e fredda, pare svuotare l’evento raccontato dell’importanza iconica che ebbe per il mondo.
Nobili i contributi tecnici, tutti firmati da premi Oscar vinti grazie a collaborazioni con Chazelle: la colonna sonora, emozionata ma ripetitiva, è di Justin Hurwitz, già celebrato con la statuetta per La La Land; la fotografia di Linus Sandgren, Oscar per lo stesso film; il montaggio, che brilla di lucida efficacia, di Tom Cross, premiato per Whiplash.
Una curiosità. Mark Armstrong, figlio di Neil, appare nel film in un piccolissimo ruolo: è Paul Haney, che per anni fu responsabile delle relazioni esterne della NASA e voce dei programmi Gemini e Apollo.
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