Cinema di lacerazioni, di emorragie interne, di ferite emotive insanabili, di solitudine e perdizione: quello di Kim Ki-Duk è un occhio indecifrabile, pastoso, feroce, ma pieno di grazia.
Dal vivo, Kim è come circonfuso da una calma zen che trasmette a chi gli sta intorno, pacato e pacificato: nei suoi film al contrario esplode un’angoscia indicibile, una forza distruttiva abbacinante, anche quando le atmosfere sanno di malinconia e astrazione (come nei bellissimi Ferro 3 e La samaritana). Dopo un periodo di riassestamento, di disorientamento e blocco creativo parziale che lo ha spinto ad un eremitaggio autopunitivo (e testimoniato da Arirang, pellicola ovviamente inedita in Italia), in Pietà (vincitore del Leone d’oro giusto l’anno scorso), Kim è tornato alla potenza delle origini, addirittura elevandola alla millesima, con un film sconvolgente e dolce, terribile e struggente.
Moebius, dati i presupposti e la trama già censurabile, alzava la posta: della provocazione, della violenza, dell’estremo, dello scandaloso. E così è stato, ma qualcosa non funziona (più).
Laddove in Pietà ogni gesto, ogni scena per quanto insostenibile acquisiva un senso e dava alla totalità della storia una complessità, una profondità e un’attualità da cui non ci si poteva nascondere, Moebius invece s’impantana nel fine del proprio contenuto, come se da un certo punto in poi lo perdesse di vista.
Girato in un digitale luminoso che lucida e rende vividi i corpi, facendo brillare il sangue, le lacrime, il moccio, lo sperma, è un racconto che ha giustamente perduto l’uso della parola (Moebius è muto dal primo all’ultimo minuto, ed è uno dei suoi punti di forza), che affonda fin dal principio in una quotidianità malata e spacciata: la famiglia è un nucleo di (auto)distruzione, e quando una madre tradita castra il figlio, il padre dovrà fare i conti con le proprie responsabilità, e si troverà giocoforza faccia a faccia con la sessualità mutilata e spezzata del ragazzo, problema attorno a cui gravita, nasce e cresce il delirio narrativo, per via del quale cause e conseguenze vengono messe in circolo.
Transfert perversi, pulsioni erotiche impossibili da concretizzare, l’interscambiabilità di piacere e dolore, l’ossessione per un corpo che strappato dalla normalità rende impraticabile lo stare al mondo, e via dicendo: nella prima parte i temi si srotolano con la giusta dose di asfissia malata, la quale ben corrisponde al titolo stesso (il nastro di Moebius è una superficie curva senza inizio né fine, su cui si può girare all’infinito, come un eterno circolo vizioso). Dalla metà in poi, però, Ki-Duk sembra perdere la bussola, è all’apparenza confuso sulla strada da prendere, su cos’altro dire, su che altro mostrare per scioccare. E quindi procede per ripetizione di scene shock, di traumi visivi i quali, alla quarta volta che ce li vediamo propinare, non fanno più effetto e provocano persino ilarità (la Sala Grande della Mostra, piena fino all’orlo, dopo le urla iniziali degli impressionabili ha iniziato a sghignazzare ripetutamente), il che dispiace soprattutto perché viene dopo un tale capolavoro. E forse è proprio sull’onda del successo di Pietà che Kim si è gettato immediatamente in questa nuova fatica, che nella sua resa finale è stavolta meno incisiva e significativa.
Resta però, innegabile, l’importanza di un cinema coraggioso, di un cinema che osa nonostante tutto e che mette alla prova, che sperimenta spingendo oltre il limite qualsiasi effetto collaterale possibile di un film: nella sua imperfezione, nella parziale delusione, è un cinema di libertà sfrontata e fiera, e ce lo dobbiamo tenere stretto.
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Grazie!
Non sono d’accordo su niente.
A parere mio, anche quelle numerose scene apparentemente ridicole (che per stessa ammissione di Kim sono state inserite per alleggerire la tensione) meriterebbero una analisi piuttosto accurata che, ahimè, proprio ora dopo la visione del film non sono in grado di imbastire. Comunque l’ho trovato valido e significativo.