Ricercando brevemente l’origine del morto che cammina dovremmo risalire almeno al XVIII secolo, escludendo per comodità indagini su miti, folklore e fiabe antecedenti a questo secolo, quando la figura del vampiro entrò prepotentemente nell’immaginario europeo ispirando uno dei racconti più noti della letteratura gotica, Il Vampiro di John Polidori – la cui genesi è condivisa con un altro classico del periodo,Frankenstein: ovvero il moderno Prometeo di Mary Shelly. Purtroppo non è possibile analizzare in questa sede come si sia passati dalla rielaborazione del folklore est-europeo di Polidori agli zombie di George Romero ma resta il fatto che il morto vivente diviene rapidamente una mina vagante nel corso della storia della fantasia: il suo uso ed i significati di cui egli può farsi portatore, in quanto nuovo Prometeo, sono numerosi. In particolare è utile sottolineare come alla critica sociale presentata da artisti come lo stesso George Romero o Werner Herzog – spesso rivolta contro la società borghese ed i suoi usi e costumi, come in Dawn of the Dead/Zombie o Nosferatu: Phantom der Nacht – si sia lentamente affiancata una letteratura di “stato d’eccezione”: principale esponente di questa nuova categoria è l’opera di maggior successo di Robert Kirkman, quel The Walking Dead di cui è appena cominciata la quarta stagione. Bisogna prender atto di queste qualità prima di poter commentare la scelta di Zerocalcare di narrare nel suo terzo volume, Dodici, di un’apocalisse zombie che ha colpito Rebibbia.
Le intenzioni di Zerocalcare sono chiarite nelle prime pagine del volume, pubblicate in anteprima sia online che su cartaceo: le parole di Secco, «Vedi, lui per esempio ci ha guadagnato col passaggio a zombi […]» a cui segue il chiaro riferimento di uno dei personaggi, Katja, a Romero stesso; infine, voltando pagina, si legge «[…] Forse perché il carcere di Rebibbia è la più grossa fabbrica d’attesa d’Europa. Corpi dentro che aspettano di uscire […] Se cresci a Rebibbia ti abitui ad aspettare. L’attesa ti entra dentro. […]».
Siamo ancora all’inizio della vicenda e siamo a conoscenza del fatto che, dopo l’apocalisse, il piccolo gruppo formato da Secco, Cinghiale e Katja sta tentando di salvare la vita dello stesso Zerocalcare, ritrovato nel suo appartamento gravemente ferito. Rech ha l’intelligenza di fornirci immediatamente le chiavi di lettura della sua opera, invitandoci a tentare di smontare l’intreccio e ricostruire la fabula della vicenda; un gioco a cui l’autore si era già dimostrato incline nelle due pubblicazioni precedenti e che in Dodici assume un valore ancora maggiore per l’intrecciarsi di due filoni narrativi (passato e presente) inframezzati dalle riflessioni del moribondo Zero e da un altro personaggio il cui apporto al racconto avrà un valore interessante contenutisticamente, ma non nella trama: piuttosto, è bene sottolineare l’abilità con cui l’autore distragga il lettore e mischi le carte, creando un’opera che, per essere apprezzata al meglio, va “disinnescata”.
Ricostruendo questo meccanismo è possibile svelare l’intento dell’autore: raccontare l’anima ed il complesso sentimento che lega queste persone a Rebibbia, ed i tanti quartieri simili ad essa, spesso intente solo a perdere anni «ad aspettare qualcosa, qualcuno, la sorte o perché no la morte». Una qualità mortifera che s’incarna, oltre che nella forma zombiesca assunta dagli abitanti del quartiere, proprio nei tre protagonisti maschili, non a caso tutti “indigeni” del luogo: Zero dall’incapacità di aprirsi al prossimo che diviene egoismo, Secco dalla malafede che si trasforma in pregiudizio e Cinghiale dall’insaziabile desiderio che lo trasforma in un ebete. Tematiche care all’autore romano che rappresentano una grettezza che lo stato d’eccezione rende evidente, palpabile, in un senso di perdita che la conclusione della vicenda acuisce con inaspettata inflessibilità stemperata solo in parte dall’epilogo. Un epilogo in cui vi è ugualmente una mancanza: quella del colore.
Da un lato, la policromia evidenzia alcune imprecisioni del tratto di Zerocalcare che, nel classico bianco e nero, tendono a passare inosservate; dall’altro vale il discorso fatto per l’intreccio della vicenda: anche la presenza del colore ricopre un ruolo fondamentale nella fruizione e nella lettura dell’opera e la sua presenza, o la sua assenza, ha una valenza precisa. Evidente quando l’azione si svolge nel passato, quando ci spostiamo nel presente sfuma in una scala di grigi (con l’eccezione del rosso) per assumere ancora un altro aspetto durante le riflessioni del morente Zerocalcare. Al di là di queste considerazioni, è opportuno sottolineare l’ottimo lavoro svolto dalla colorista Sara Basilotta a cui era stato affidato un compito davvero complesso.
Queste qualità sottolineano la scelta di Rech di scrivere un’opera la cui comprensione non è immediata e che richiede al lettore una lettura ponderata. Un racconto che, nuovamente, è un’esplorazione di sé e delle proprie debolezze, dove la nemesi non assume l’aspetto di un nostro collega, di un amico di vecchia data, di un erotomane o di un losco conoscente, ma la nostra immagine riflessa. Un’immagine che a volte assume l’aspetto di un armadillo.
Testi e disegni: Zerocalcare
Colori: Sara Basilotta
Editore: Bao Publishing
Anno: 2013
Pagine: 96
Prezzo: 13 euro
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