A Hollywood esiste una propensione tutta particolare per l’intrattenimento. Ci sono film (e saghe), come quella di Fast & Furious, la cui virtù giace esattamente in questo stesso concetto: sul piano diegetico, così come su quello della fruizione, eroi e gente si divertono. In quindici anni di acrobazie automobilistiche, close-up di culi, asfalti bollenti e musica tamarra, si fa leva sempre sulla stessa dinamica cinematografica e sui medesimi perni discorsivi: lunghe sequenze action ove l’estetica di macchine, donne in bikini, bellezze naturalistiche e forza bruta viene enfatizzata nel vitalismo più sfrenato.

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Sette prodotti, si potrebbe asserire, più o meno uguali, al limite della manovalanza. L’ultimo capitolo, in questo senso, non stupisce: cambiato il regista al timone, James Wan, al contrario di Vin Diesel e “famiglia”, dalla carreggiata dell’imposizione produttiva non si emancipa mai. Va da sé che eventuali riferimenti trasversali o ipertestuali, come sempre, vanno a perdersi nella centrifuga spettacolare, evasioni significanti sul piano simbolico paiono chimere inutilizzabili. Rimane, oltre alla banalità narrativa, una sostanziale elementarità per quel che riguarda i principi fondanti l’universo filmico.

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I ruoli attanziali nella gang passano da tutto un sistema stereotipato di modelli (super)umani: lo scimmione bruto dal cuore tenero (Vin Diesel), l’eroina dietro all’eroe (Michelle Rodriguez), la controparte dall’intelletto svezzato (Paul Walker), e così via. Per tutti, azioni che sono re-azioni, a dividersi tra il valore della vendetta (null’altro che un espediente) e quello dell’amore (fraterno o meno), a un passo dalla retorica americana. Esauritosi presto lo spunto narrativo del doppio, per i nemici-fratelli Vin/Paul, a questo mondo rimane un’imbarazzante riduzione all’osso di tematiche che vadano oltre il semplice impatto estetico. Fast & Furious potrebbe essere un film che perde, ma nella sua paradossale desertificazione di significato, funziona, e benissimo. È un microcosmo dove, una volta interiorizzati i postulati a esso necessari, ogni snodo narrativo impossibile o altrove forzato pare ammissibile (e divertente!).

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Tutto il film a dimostrare che “le macchine volano”: da un grattacielo a un altro, da un burrone, mentre gli eroi fisicamente intatti non dimostrano di cedere sotto alcuna pressione psicologica, anzi, ne vogliono ancora. A fronte di una sceneggiatura a tratti parodistica, con l’amore che risveglia i morti, si finisce per credere all’enciclopedia da soap-opera sfoderata da Diesel, e persino a non ridere per le sue pose plastiche o per le ripetute riprese dal basso. Questa funzionalità e questo spasso è dato, in primis e in maniera inequivocabile, dalla mano virtuosistica di Wan.

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Le sequenze interminabili di corse e macchine maciullate si sopportano, quasi si godono, grazie all’impronta registica dinamicissima e tirata, in un certo stacco qualitativo dal precedente Justin Lin. Wan sfrutta il pretesto action come vera e propria opportunità per l’esercizio di stile, compiacendosi di poter spremere la macchina registica di ogni elucubrazione estetica, dal ralenti alle panoramiche, ai movimenti fluidi e velocissimi, in uno stile schizofrenico e sinuoso a metà tra il videoclip e la serialità televisiva.

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Il prodotto nella sua completezza è una vera bomba a orologeria che preme e si bea soprattutto della sua vacuità artistica e dell’espressività estetica ammiccante. Non bastasse, l’epilogo meta- cinematografico con Diesel e Walker che prendono strade diverse, con tanto di voce-off omaggiante, riesce a fare leva sentimentale senza risvolti posticci o melò. L’elementarità per parlare a tutti, forse per non parlare nemmeno, per lasciare che tutto venga introiettato automaticamente e sottopelle. In maniera attrattiva e primitiva, dunque. Ogni tanto è bene ricordarsi che, al cinema, è possibile non pretendere nulla, e divertirsi lo stesso.



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