Greg è un classico adolescente nerd che decide di trascorrere l’ultimo anno del liceo in uno stato di autoesilio, senza intrattenere rapporti sociali con chicchessia, con l’unica eccezione di Earl, il suo unico amico coetaneo, col quale gira bizzarri “adattamenti” di celebri film. I suoi propositi decadono quando, spinto dalla madre, è costretto a fare amicizia con una ragazza, Rachel, ammalata di leucemia…

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Sentirete parlare benissimo di Me and Earl and the Dying Girl (in Italia sarà Quel fantastico peggior anno della mia vita), specie se vi capiterà sotto gli occhi una recensione americana. Lì il film è stato l’indie movie dell’anno e ha trionfato, guarda caso, al Sundance Film Festival, che nonostante gli anni, continua ad essere un ottimo trampolino di lancio per attori, registi, sceneggiatori ed un particolare genere di pellicole.

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Sundance movie infatti è un termine che ha oramai acquisito una strana, ambigua ed ambivalente accezione, visto che in essa convivono sia elementi di positività (regia curata, valori produttivi ottimi rispetto al budget, facce nuove che faranno carriera, sceneggiature vergate da penne rampanti) che di negatività (script che “si citano addosso”, paraculaggine diffusa e quasi ostentata, opere costruite apposta per piacere a un certo pubblico, indipendenza non si sa bene da chi).

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Beh, se esiste un perfetto rappresentante della categoria Sundance movie questo è Me and Earl and the Dying Girl. E non è proprio un complimento. Già, perchè a fronte di indubbi pregi, come i frizzanti e brillanti dialoghi della prima mezz’ora di film, le ottime, per quanto non originali, idee mostrate (i “film” del duo sono uno spasso) e gli ottimi valori produttivi messi in campo, la sensazione che si inizia a provare a metà film e che perdura, ampliandosi, fino alla fine, è che si tratti di un’opera poco sincera, ruffianella e costruita ad hoc per suscitare la lacrima facile.

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Di opere con teen condannati a morte a causa di un destino triste e crudele, la storia del cinema è ricca e da Love Story in poi il canovaccio è sempre lo stesso: due si amano e uno muore. Già, ma alla fine come ci si arriva? E’ quello che fa la differenza. Qui purtroppo non solo si prova scarsa empatia nei confronti dei personaggi, ma si ha la sensazione che questa non esista nemmeno tra di loro. Finchè c’è da ridere e scherzare, il film funziona, ma non appena la vittima peggiora ed i toni dovrebbero farsi più drammatici e l’analisi più densa, Me and Earl and the Dying Girl si sfalda come un castello di carte.

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I difetti, astutamente celati nella prima metà dell’opera, si palesano con cristallina chiarezza. La narrazione zoppica, ti rendi conto che nessun teen al mondo parla come il protagonista (anche se l’attore che lo interpreta si chiama Thomas Mann…nomen omen?) , che le citazioni sono troppo colte e scelte apposta per appagare un certo tipo di pubblico dotato di un certo tipo di cultura e che i personaggi di contorno sono poco credibili e bidimensionali. Tutto è programmato, laccato, asettico, ordinato, perfetto, prevedibile. Poco sincero, insomma. Sentirete parlare benissimo di Me and Earl and the Dying Girl, però, insomma, non è che poi sia questo gran capolavoro. Anzi.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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