Berlino,2052: il barista muto Leo Beiler è alla ricerca di Naadirah, la sua fidanzata scomparsa nel nulla in circostanze misteriose. Durante la sua frenetica ricerca s’imbatte in una curiosa coppia di chirurghi che lavorano per la malavita organizzata e inizia a sospettare che uno dei due sia coinvolto nella scomparsa della ragazza…

Che sta succedendo a Duncan Jones? Il figlio di David Bowie, che aveva raccolto lodi e premi con l’ottimo Moon ed il meno riuscito ma altrettanto interessante Source code, sembra essersi completamente perso. Due anni fa la firma sul pallido live action di Warcraft, un film economicamente salvato dal mercato cinese, più inutile che brutto ma nettamente sottotono rispetto ai primi titoli; oggi, sotto il generoso cappello di Netflix, che può permettersi di buttare soldi dalla finestra, arriva Mute, che riesce nella non facile impresa di risultare persin meno convincente rispetto a Bright e The Cloverfield Paradox (confermando un’idea che ci ronza in testa da un po’).

E’ davvero difficile riuscire a trovare spunti ed elementi positivi in Mute, fatte salve forse solo le ambientazioni bladerunneriane che però appaiono anch’esse poco originali e assolutamente derivative. Il resto è atroce, a cominciare dallo script: il viaggio/indagine del protagonista Amish (il film non fa mai capire la ragione per cui sia stato scelto di questo credo, visto che il suo neoluddismo militante viene mal rappresentato prima e completamente abbandonato poi) procede per tappe forzate e prevedibili. Terrificante è la caratterizzazione del bizzarro duo di chirurghi composto da Paul Rudd e Justin Theroux, entrambi clamorosamente fuori parte. Non si capisce sia sia peggio far fare il villain al primo o la spalla “emotiva” al secondo.

La regia di Jones è sempre piatta e priva di inventiva. E’chiaro l’intento di scimmiottare Scott e Blade Runner (il primo ma, a questo punto, pure il sequel di Villenueve è nettamente più intrigante di questo strambo epigono) e anche Il Quinto Elemento di Besson, ma non c’è alcuna sequenza, idea o dialogo che dimostri la volontà di provare a proporre anche qualcosa di originale. Alexander Skarsgård, altrove ottimo, fa molta fatica a rendere credibile un personaggio che ricalca quello non muto ma altrettanto silenzioso e spietato, impersonato da Liam Neeson in vari film action degli ultimi anni. Se gli si voleva conferire un’aura noir o hard boiled, beh, il tentativo è miseramente fallito.

Irridendo un po’ il titolo, si potrebbe dire che Mute ha davvero poco da dire: troppo semplicistico come thriller, poco convincente come action, eccessivamente dilatato e scarsamente credibile un po’ a tutti i livelli. Il mix di due sottotrame poco interessanti e che suscitano empatia pari a zero dimostrano che Netflix, lato cinema, dovrebbe rendersi conto che prima di attori, registi e budget vengono le storie. Senza quelle, non si va da nessuna parte.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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