Sì, quella del sequel di Blade Runner è decisamente una sfida vinta per Denis Villeneuve. Forse non al livello del capolavoro come salutato dalla critica statunitense, ma è innegabile come il regista canadese di Arrival e Sicario abbia tirato fuori dal cappello uno dei film più significativi dell’anno.
Se la vittoria è certificata, vale la pena di spendere due parole per inquadrare quale fosse veramente la sfida messa davanti a uno dei migliori registi contemporanei (e da ben prima che Hollywood ci mettesse sopra gli occhi).
Anzi, è proprio l’ottima performance di Denis Villeneuve – nonostante gli enormi handicap con cui si presenta alla linea di partenza – che genera il rammarico più forte, insieme all’inutilità acuta e abbastanza nociva di Jared Leto.
Dopo quel gioiello di Arrival – che a Blade Runner 2049 rimane per molte ragioni superiore – Denis Villeneuve si sarebbe meritato carta bianca per girare il suo Blade Runner, il suo capolavoro fantascientifico che detti la linea da qui a 30 anni e non lo scomodo ruolo di traghettatore delle visioni di Ridley Scott degli anni ’80 nella modernità.
Perché il futuro al cinema rimane invariato dal 1982? L’influenza di Blade Runner è sicuramente uno degli elementi chiave, ma può spiegare fino a un certo punto un 2017 in cui gli studios si sono accaniti a presentarci un retrofuturismo fatto di grattacieli immersi nella notte delle megalopoli asiaticheggianti rischiarate da luci neon e donnine olografiche. Il tutto senza il benché minimo tentativo di attualizzare o rinvigorire una visione che – dal remake di Ghost in the Shell a Valerian e la città dei Mille Pianeti – non è che un’altra faccia della medaglia dell’operazione nostalgia degli anni ’80. Prima rimpiangi i cult dell’infanzia, poi passi alle distopie dell’epoca, che di fronte a un futuro talvolta imprevedibile finiscono per essere quasi rassicuranti.
E cosa ci racconta il futuro tratteggiato da Ridley Scott nel 1982? A balzare agli occhi sono i dettagli più anacronistici: la tecnologia materica e meccanica, l’ossessione per le auto che volano e il machismo esasperato del predestinato protagonista maschile (siete davvero sicuri che quella sassofonata là fosse romantica e non la scena più disturbante del decennio?).
Il vero problema di Villeneuve è proprio questo: trovarsi in un territorio già recintato, con la necessità di creare un film che possa essere attuale per lo spettatore e al tempo stesso coerentemente figlio di quell’iconografia. Quando Blade Runner 2049 funziona (molto spesso a dire il vero) è perché riesce ad essere la sintesi perfetta del capolavoro iconico e dello stile personalissimo e contemporaneo del regista che si trova per le mani il sequel più scomodo dell’annata. Roba che quella di Abrams con Star Wars pare a confronto una passeggiata. Un esempio perfetto è l’apertura del film: Ryan Gosling su un veicolo volante – che nonostante tutto un po’ di perplessità la genera comunque – che vola sopra distese infinite di pannelli solari immersi nell’atmosfera di nebbia soffocante per permea tutto il film.
L’irrinunciabile tematica ambientale striscia sapientemente in uno scenario in cui era prima aliena, concentrati come si era negli anni ’80 sui timori di un’egemonia giapponese sul mondo e sul progresso incontrollato della tecnologia. Ci sono ancora i neon e le sensuali donne olografiche – in un’interazione molto simile a quella descritta da Richard Morgan in Altered Carbon – ma sono inghiottiti da una città così densa e sviluppata da sembrare completamente artificiale e sterile, un modulo abitativo prefabbricato in dimensione macroscopica, megalitica.
Sembra di vedere il futuro di una megalopoli cinese soffocata dall’inquinamento, dove un pezzo di vero legno è un tesoro prezioso e l’unico squarcio azzurro è quello degli occhi del tormentato protagonista. Dal punto di vista registico e tecnico, 2049 si avvicina e molto al territorio del capolavoro, perché Villeneuve sa mettere a frutto senza strafare le possibilità economiche degli studios, circondandosi di geni. Impossibile – e non solo per una sua devotissima ammiratrice come la sottoscritta – non citare il lavoro di Roger Deakins alla fotografia. Deakins ha reso iconico e memorabile più di un film di Villeneuve, ma qui si supera, facendo qualcosa che mai prima d’ora aveva fatto: scompare, rinuncia alla scena smaccatamente messa lì per dimostrare il suo talento da fuoriclasse (la villa che brucia in Skyfall, la scena a visione notturna in Sicario) e si limita a fotografare tutto con un livello di sobria perfezione da antologia. Sui boati solitari che compongono questa OST, basta dire che escono dal cappello di un Hans Zimmer costretto a fare la stessa operazione di Villeneuve: inseguire uno scomodo precedessore.
Dove la mano di Villeneuve risulta più che evidente è nello stile del film, che in base alle varie scuderie può essere definito cerebrale e acutissimo o noioso e lento come la morte. La durata è imponente quanto la produzione, sì, ma raramente negli ultimi anni si sono viste 2 ore e 43 minuti così semplici da giustificare.
La vera rivoluzione di Villeneuve è quella di prendere uno script aggiornato e tutto sommato congegnato nel miglior modo possibile per salvare capra e cavoli, rendendolo una creatura in tutto e per tutto villeneuviana.
2049 riesce così ad espandere i confini di Blade Runner, dando punti fermi a vecchie ambiguità per creare nuovi e affascinanti misteri. Anche se rispetto al passato l’insopprimibile bisogno di spiegare e rivelare la fa da padrona, il mondo di Blade Runner rimane moralmente ambiguo. L’incertezza esistenziale di 2049 è in realtà quella del 2017: non è più tanto la tecnologia a fare paura (anzi, assolve una funzione consolatoria, a tratti umanizzante) quando l’impossibilità di stabilire i confini del controllo sulla propria vita, immersi in un mondo niente di concreto è naturale e nulla di astratto sembra più autentico, vergine dall’ombra del dubbio.
Quando Blade Runner 2049 mette il piede in fallo lo fa sempre per motivi fuori dal controllo del suo regista. La sceneggiatura ha più di una debolezza, dovuta soprattutto all’impossibilità di cedere al nichilismo suggerito dagli eventi senza dare una missione e uno scopo tutto sommato inconsistenti al protagonista.
Anche sotto questo punto di vista, è difficile immaginare un film più indeciso sul da farsi: Ryan Gosling incarna il maschio bianco protagonista di una storia che forse non è la sua e circondato da personaggi femminili che sotto l’aspetto attraente e vulnerabile delle donne del 1982 nascondono un vero motivo d’essere. Rimangono però pianeti che orbitano attorno al protagonista, o la cui importanza è figlia di un diritto di nascita o di una costruzione al laboratorio. Donne durissime e mascoline, tenere creature comprensive o coacervi di una violenza priva di sesso e piena di banalità: difficile immaginare che uno dietro a Sicario e Arrival con le mani più libere non avrebbe potuto fare di meglio in questo senso.
Anche perché Villeneuve in fase di casting ha un occhio acuto quasi quanto dietro la macchina da presa, ma non può sfuggire per passaporto un paio di nomi infelici calati dall’alto. Dopo l’inutile ma tutto sommato inoffensivo Jeremy Renner in Arrival, stavolta gli tocca l’inutile e attivamente dannoso Jared Leto, nascosto e perduto dentro personaggi aggressivi esteticamente ed eccessivi caratterialmente, ma inutilmente folli. La sua fuffa biblico eugenetica è l’unico momento in cui il film scivola pericolosamente nelle visioni futuristiche stereotipate della Hollywood odierna. L’unico momento in cui il suo personaggio mette i brividi è invece merito di qualcosa che ha fatto il tycoon del precedente film. Al suo fianco milita il doppio speculare e cattivo di Gosling, il replicante Luv, incastrato nella banalità del modello trascurato in quanto quasi perfetto ma comunque incompleto. Che siano film Marvel o quasi capolavoro, Hollywood continua a dimostrare di non saper trovare un cattivo degno dei suoi eroi.
Eccola qui la vittoria di Villeneuve, l’uomo delle sfide fantascientifiche impossibili e di risulta di Hollywood, quello che già con Arrival avrebbe dovuto ottenere carta bianca per le sue sfide personali (pare che anche lui sia nel novero di quelli ossessionati da Dune). Se Blade Runner gli darà questa possibilità, allora sarà valsa la pena di girare l’ottimo sequel comunque non necessario e non richiesto di un capolavoro. Altrimenti pare che la prossima missione impossibile sia demolire il machismo di James Bond. Attendo impaziente.
La versione originale di questa recensione è originariamente apparsa sul blog di Elisa,Gerundiopresente.
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