Giunti in fondo a questo lungo e tortuoso percorso che, in diciotto episodi, ci ha condotti a un atteso quanto imprevedibile epilogo – forse l’unico possibile – Twin Peaks: Il Ritorno ha reso esplicito il coraggio che David Lynch ha avuto nello strappare dalle mani quel feticcio audiovisivo che, per più di cinque lustri, gli spettatori avevano gelosamente custodito e ammirato. Twin Peaks sarà anche tornato, ma solo per illudere ancora il suo pubblico, come se l’autore avesse accolto le preghiere di milioni di fan con il solo obiettivo di prendersi gioco di loro. Diciotto episodi di intrighi, nostalgie e deliri per dire che, dopotutto, il microcosmo Twin Peaks non esiste più, e forse non è nemmeno mai esistito, come un sogno che al risveglio smette di essere tangibile e credibile.

Come anticipato nel precedente appuntamento – e ora ne abbiamo la certezza – la st-ridente cittadina è ed è rimasta “quello spazio ideale non solo per osservare il male – non più – ma per scoprire da dove è giunto e (soprattutto) dove è diretto”. Twin Peaks come crocevia della sorte di personaggi irrisolti, senza identità, senz’anima, che hanno vagato alla ricerca di un senso utile a restituire o concedere loro un’esistenza “normale” (riconosciuta solo a Dougie, che ha cittadinanza presso un’altra realtà). Più buio del nero, più duro della tragedia, Lynch regala a suoi spettatori un finale mozzafiato in cui a nulla sono servite le défaillance, la resistenza, le corse e le speranze dell’agente Dale Cooper, intenzionato non solo a risolvere il caso di una vita, ma anche a salvare le vite di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno dipeso e dipendevano da lui. A nulla perché, se fino al penultimo episodio – con la dipartita di Bob, in realtà scheggia impazzita di un male ben più esteso e rigorosamente organizzato – un (seppur Lynchiano) “lieto fine” sembrava quantomeno auspicabile, nell’ultima puntata ogni speranza sarà drammaticamente infranta rendendo vani sia l’andirivieni dei numerosi personaggi (vecchi e nuovi) coinvolti in questa terza stagione, sia l’apparente sforzo edificante di Lynch che, attraverso una storia macchinosa e (a tratti) sorprendente, sembrava voler assegnare a Twin Peaks un posto privilegiato nel firmamento dei non-luoghi cinematografici/televisivi. E invece Twin Peaks fa la fine di una stella cadente che lascia una flebile scia. Lo spettacolo è finito, non c’è niente da vedere, tornate alle vostre case…

E chi una casa non ce l’ha più (Dale Cooper)? Chi sarà costretto a vivere con terrificanti deja-vù (Carrie Page/Laura Palmer)? Chi sita in un purgatorio senza un referente terreno (Audrey Horne)? Anime senza dimora, memoria, né gloria. David Lynch, con il suo finale dissacrante e sconvolgente, ci suggerisce non solo che a vincere è il male (Judy), che alle violenze non si può sfuggire, che la storia è destinata a ripetersi e che non ci sono alternative nonostante le numerose realtà alternative; ma che la prossima volta, la prossima realtà coinvolta potrebbe essere la nostra – l’attrice che interpreta la nuova inquilina della casa di Laura è l’autentica proprietaria dell’immobile – magari proprio mentre siamo intenti a ignorare il male, a ridimensionarlo, a demistificarlo mentre guardiamo divertiti o annoiati l’episodio di un’altra serie tv…



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