C’è un tipo di candidatura agli Academy Awards che viene di solito qualificata come Oscar-bait: esca per gli Oscar. Nelle categorie attoriali, spesso il segnale è una grande trasformazione fisica (perdita o aumento di peso; trucco pesante, anche con l’uso di prostetici, sul viso). Quando si tratta della categoria Miglior Film, invece, è una questione di trama: il personaggio principale supera grandi difficoltà per affermare il proprio genio o comunque la propria personalità, meglio se il tutto è inquadrato in un periodo storico di particolare risonanza. Il Discorso del Re, Sopravvissuto – The Martian, Whiplash, 12 Anni Schiavo, La Teoria del Tutto, Argo: sono solo alcuni dei titoli che rispondono al criterio, e non è nemmeno necessario allontanarsi dagli anni Dieci del nuovo millennio.
Il Diritto di Contare è ambientato nel 1961; gli Stati Uniti sono impegnati nella “corsa allo spazio”, e sono in netto svantaggio: i sovietici sono già riusciti a mandare un uomo in orbita intorno alla Terra, Jurij Gagarin. Invece di concentrarsi sulla vita degli astronauti, il secondo film di Theodore Melfi (il suo esordio è St. Vincent, con Bill Murray) segue la vita dei tre personaggi principali – Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson – che lavorano alla NASA, presso la sede di Langley, come “human computers”, occupandosi dei calcoli necessari a far arrivare gli astronauti nello spazio e poi a farli tornare sulla Terra; la spinta narrativa deriva soprattutto dagli sforzi necessari alle protagoniste per superare il coagulo di pregiudizi generati dal razzismo e dal sessismo che le protagoniste incontrano in quanto donne afroamericane che vivono e lavorano in Virginia, uno stato ancora segregato.
Dunque, alla base, Il Diritto di Contare non si discosta dallo schema descritto prima, se non fosse per un dettaglio: il focus della storia è costituito da tre donne afroamericane che non sono costrette nei personaggi per cui gli Academy Awards tendono a premiare gli attori neri, vale a dire quelli di camerieri o schiavi.
A interpretare i tre ruoli maggiori, sono state chiamate due attrici affermate e pluripremiate come Taraji P. Henson (celebre per il suo ruolo di Cookie Lyon nella serie Empire, che le è valso un Golden Globe [anche se per noi resta l’indimenticabile detective Carter di Person of Interest) e Octavia Spencer (già vincitrice di un Oscar come Migliore Attrice Non Protagonista per The Help); Henson e Spencer sono affiancate dall’esordiente – nella recitazione, vista una carriera di successo da cantante – Janelle Monáe, che, con la sua bravura, si è fatta notare anche in Moonlight (altro candidato a Miglior Film).
La sceneggiatura, firmata dal regista e da Allison Schroeder, è basata sul libro Hidden Figures di Margot Lee Shetterly (che ha prestato il titolo originale del film) e fa un buon lavoro nel tratteggiare il tumultuoso periodo storico che fa da sfondo agli avvenimenti: nei primi anni Sessanta, il movimento per i diritti civili degli afroamericani inizia a guadagnare visibilità, e questo significa che la violenza subita dalla minoranza nera (il linciaggio del quattordicenne Emmett Till è avvenuto nel 1955, solo sei anni prima) diventa sempre più esplicita poiché l’establishment bianco cerca di spezzarne le istanze.
La repressione si manifesta in modo diverso per ciascuno dei personaggi principali: Katherine Johnson (Henson), alla quale viene assegnata la linea narrativa più tradizionale, viene chiamata a lavorare per lo Space Task Group, ma, nonostante le sue evidenti capacità, i colleghi ci tengono a ricordarle il suo posto – e il suo posto è quello di una “coloured computer”; Dorothy Vaughan (Spencer) svolge ormai da tempo le mansioni di supervisore della divisione afroamericana delle “computers”, però la NASA – nella figura dell’arcigna Vivian Mitchell – continua a non promuoverla ufficialmente; infine, il talento di Mary Jackson (Monáe) la rende una perfetta candidata per diventare un’ingegnere aeronautico, tuttavia per accedere al relativo programma della NASA le è necessario seguire dei corsi supplementari, corsi che non le è concesso frequentare nella scuola riservata ai bianchi presso cui si tengono.
I personaggi secondari sono affidati a nomi già affermati (Kevin Costner e Kirsten Dunst) e ad altri in ascesa (Mahershala Ali, il Remy Danton di House of Cards, che – come Janelle Monáe – ha un ruolo rilevante in Moonlight), i quali contribuiscono all’eccellente livello interpretativo della pellicola, sempre alto nonostante un paio di cadute di tono nella sceneggiatura, per esempio quando il personaggio di Kevin Costner sembra riuscire a desegregare le toilette della NASA solo con la forza dei propri bicipiti.
Il Diritto di Contare è un film di medio livello e tarato su un pubblico generalista, come testimonia anche la regia impeccabile ma non certo ispirata di Melfi, ma ha dalla sua un grande cast e una storia (vera) che non è stata mai raccontata prima. Rispetto ad annate precedenti, questa tornata degli Academy Awards è rimarchevole per una forte presenza afroamericana – il già ricordato e acclamatissimo Moonlight di Barry Jenkins, e Fences, diretto da Denzel Washington e adattato dall’opera omonima del premio Pulitzer August Wilson – ma è ingenuo ritenere che siano il risultato solo della campagna #OscarsSoWhite (anche per la complessità del funzionamento dell’industria cinematografica per quanto riguarda tempi e finanziamenti).
È altrettanto ingenuo pensare però che uno di questi film abbia la vittoria in tasca per ragioni politicamente corrette, nonostante gli sforzi fantasiosi di alcuni giornalisti italiani. Eppure, in ogni caso, non sarebbe poi così male se il comitato degli Academy Awards decidesse di dare un segnale all’attuale presidenza degli Stati Uniti.
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