Nato a metà degli anni ’80 sulle pagine di New Mutants 25 e partorito dall’unione fra la mente di Chris Claremont e l’arte astratta di Bill Sienkiewicz, David Haller è forse il più potente mutante che sia mai comparso nell’Universo Marvel a fumetti.

È il figlio di Charles Xavier, il leader degli X-Men, ma sebbene il potere che ha ereditato dal padre telepate sia maggiore di quanto chiunque possa immaginare, David è tragicamente limitato e vessato da gravi problemi mentali (soffre di schizofrenia e di disturbo della personalità multipla) che per forza di cose ne decretano la natura ambivalente. A volte buono, a volte cattivo, altre volte addirittura cattivissimo (se volete saperne di più su di lui, leggete l’eccezionale saga World Tour della serie Ultimate X-Men scritta da Mark Millar, o la più recente Legion, che Panini Comics ha portato in Italia proprio per celebrare l’uscita della serie tv) David è soprattutto contraddittorio e complesso, molto complesso, complesso al punto che nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di lui quando, intorno al 2015, la Marvel iniziò a valutare la possibilità di portare su piccolo schermo la storia degli altri X-Men, quelli più “piccoli”, quelli meno conosciuti rispetto ai “grandi” dei film di Bryan Singer.

Ad accettare la sfida arrivò Noah Hawley. Questo sceneggiatore di New York (che è anche un ottimo romanziere: recuperate Un Bravo Padre, I Matrimoni degli Altri e il recentissimo Prima di cadere) di New York veniva dall’immenso successo di Fargo, e aveva dei piani ben precisi per rivoluzionare il filone cine-comic (o tele-comic): al contrario della serie crime ispirata al mondo dei fratelli Coen, che offre una narrazione marcatamente oggettiva che si dirama fra tantissimi protagonisti, Hawley si sarebbe approcciato a questo nuovo progetto in maniera molto più intima.

L’obiettivo era quello di raccontare una storia di supereroi in maniera innovativa ed inventiva, decostruendo le ormai classiche strutture narrative che caratterizzavano il genere e avvicinando la sceneggiatura ad atmosfere surreali, trasognate, quasi horror, qualcosa che si insinuasse fra le linee sottili che separano le opere di autori come David Lynch, Terrence Malick e Dario Argento.

Per poter fare ciò aveva bisogno di un protagonista diverso da tutti gli altri, e dal mondo degli X-Men pescò l’unico supereroe che doveva essere aiutato, prima di poter iniziare ad aiutare gli altri. Un mutante potentissimo, ma affetto da una straniante forma di schizofrenia. David Haller. Legion.

La prima stagione di Legion dipinge un mondo surrealista e psichedelico. Le sceneggiature frammentate offrono deliri psicotici e trip allucinati che riflettono la complessità psichica di David, incatenando il pubblico nella confusione mentale del protagonista. Christopher Nolan lo aveva fatto per due ore in Memento, e lo spettatore era stato privato di ogni cognizione temporale; Hawley lo fa per otto episodi da un’ora ciascuno, portandoci di forza all’interno dei disturbanti (perché disturbati) processi mentali di un supereroe-mutante-telepate-schizofrenico.

Prima di Legion, non si era mai visto nulla di simile in televisione. Le geometrie perfette delle scenografie da op art, che ricreano questo ambiguo mondo anni ’70 retro-futurista (che strizza l’occhio al Kubrick di Arancia Meccanica), trasmettono un ordine preordinato che la regia da poesia beat si diverte a percuotere (così come David sarebbe perfettamente in grado di controllarsi se non fosse per il male insito in lui, arrivato dall’esterno come un virus). Il cromatismo espressionista della fotografia caleidoscopica di Dana Gonzales (già collaboratrice di Hawley in Fargo) rende tutto quanto elettrico, magico, perverso, agghiacciante.

Un po’ dramma, un po’ thriller psicologico, un po’ horror. Un po’ A Beautiful Mind, un po’ Suspiria, un po’ Strade Perdute.
E all’interno della mente di David ci sono tantissime strade perdute, nelle quali è facile andare alla deriva. All’interno della sua mente, David è in grado di creare mondi, o di reinventarli, o di riviverli in loop. Di farli diventare realtà, perfino.
Il caos si fa immersivo. Ci circonda e ci affascina, ci intriga, si fa sempre più complesso senza mai commettere l’errore di diventare complicato. Noi siamo nella mente di David, vediamo ciò che vede lui, percepiamo le cose come lui le percepisce.

A differenza dei blockbuster dei Marvel Studios, nei quali i cittadini di New York sono spettatori che osservano impotenti i duelli supereroi vs supercattivi per la salvezza del mondo, nella serie di Hawley il duello si fa esistenziale, intimista, e gli unici spettatori per l’oscura magniloquenza che si cela nella corteccia celebrale di David siete voi. Qui non è in gioco la salvezza dell’umanità. Qui è in gioco la vita dell’unica persona che l’umanità è in grado di salvarla.
Forse non distinguerete ciò che è reale da ciò che non lo è, ma le emozioni che proverete saranno più che concrete.



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