C’è qualcosa di sconfortante e commovente insieme nel seguire da lettori di fantascienza ed estimatori dello scrittore Richard Morgan il processo con cui Netflix ha tentato di portare su piccolo schermo la complessità narrativa e futuristica del mondo di Takeshi Kovacs. È come osservare il classico studente che s’impegna e si applica, ma a cui manca la padronanza della materia, la comprensione del contesto complessivo in cui applica le singole regole per risolvere il teorema dell’adattamento.

Che Netflix abbia creduto e investito nel progetto fino a un certo punto basta scorrere la lista dei registi e sceneggiatori coinvolti per capirlo, per non parlare degli svogliatissimi concept applicati nella sigla d’apertura, realizzata sulla falsariga di quella di Iron Fist e tante altre. L’intento del servizio di streaming in questo caso era quasi esplorativo: mettiamo piede nello sterminato territorio inesplorato delle storie di genere dalla fonte letteraria autorevole e stiamo a vedere che succede.

Succede che il risultato per un pubblico di neofiti si aggira tra il mediocre e il discreto, eguagliando la via di mezzo scelta a livello produttivo da Netflix. Promosso il protagonista Joel Kinnaman nei panni di un Kovacs vicino allo spirito strafottente e distruttivo dell’originale, nonostante uno sviluppo della massa muscolare tale da renderlo quasi irriconoscibile. Bocciati i personaggi femminili di Ortega e Reileen, che sulla carta dovrebbero fornire un contraltare altrettanto avvincente e accattivante, ma che non riescono mai a essere poco più di una visione piuttosto superficiale e stereotipata di una donna coi contro coglioni che è meglio non fare arrabbiare.

Sull’immaginario futuro in cui si muove Kovacs/Kinnaman non c’è molto da dire, perché davvero nulla rimane impresso nella memoria. La San Francisco in cui Takeshi cerca risposte sulla temporanea morte di un ricco e influente uomo d’affari terrestre è una versione così poco ispirata e anonima della ambientazione urbana standard a la Blade Runner che priva la serie TV di ogni possibilità di essere riconoscibile, di avere un carattere tutto suo. È una rinuncia abbastanza grave da affrontare, quando il futuro in cui ti muovi è elemento essenziale della storia che stai raccontando.

Alla fine dei 10 episodi il caso investigativo è portato a casa con criterio e una punta d’interesse, mentre le varie beghe del passato del protagonista vengono svelate nella maniera più scontata e prevedibile che poteva essere scelta. Gli apporti originali che la serie regala al materiale di partenza si riducono quindi all’ottima intelligenza artificiale a capo dell’hotel dove alloggia Kovacs e all’iconico zainetto rosa con unicorno ricolmo di droghe sintetiche che il nostro si porta sempre appresso. Un po’ pochino, dal punto di vista di un visore non lettore che magari alla fine della stagione ci arriva anche, non senza qualche impasse, di certo senza rimanere impressionato.

A scoperchiare il calderone di cosa sia andato storto dal punto di vista di un lettore si rischia di scavare a lungo senza trovare il fondo. Nella prima metà l’approccio sembra davvero quello giusto: la serie Netflix si limita a seguire lo sviluppo narrativo del romanzo d’esordio di Morgan, limando qua e là qualche lungaggine e semplificando un po’ il complesso intrigo che si nasconde dietro quello che sembra un suicidio che il ricco Laurens Bancroft si rifiuta di accettare come tale.

Quando però si comincia a scavare con decisione nel passato di Kovacs e nella sua adesione alla rivolta capitanata da Quellcrist Falconer, l’appassionato di fantascienza letteraria si ritrova davanti al solito muro concettuale in cui nessuno sembra riuscire a far breccia. Il merito o la colpa è da imputarsi all’enorme impatto che ha avuto Blade Runner sull’immaginario collettivo e sul concetto stesso di fantascienza al cinema. Di fatto Blade Runner, che è solo una delle tante espressioni di quel cyberpunk portato al successo dal romanzo di William Gibson Neuromante, in campo cinematografico e televisivo rimane l’unico modello da replicare, l’unica identità visiva che un futuro tecnologico ambientato in una megalopoli può avere.

Visivamente Altered Carbon non ha un’identità perché non ci prova nemmeno ad uscire dall’ombra proiettata da questo caposaldo del genere, che invece sarebbe ora di tentare di superare, concettualmente, filosoficamente e visivamente. Senza nulla voler togliere al capolavoro conclamato di Ridley Scott, di fatto siamo ancora inchiodati a una visione futuristica del mondo che è ormai diventata retrò, perché intrinsecamente legata agli anni ’80.

Con la sua violenza brutale e la sua libido insaziabile e senza tabù, Altered Carbon è stato scelto proprio per tentare l’approccio grimdark, dire qualcosa di nuovo, superare la dicotomia Dekart contro androidi/adolescente contro un potere distopico. Fuori dal rassicurante cono d’ombra di questi due modelli però i creatori della serie non riescono palesemente a gestire la cosa fantascientifica e decidono quindi d’imprimere un’ingiustificata accelerazione ad eventi che la trilogia affronta in modo molto differente e decisamente più avanti nel tempo, quando siamo ampiamente abituati ai modi ruvidi di Kovacs e al suo distacco talvolta aberrante.

Rigettando inspiegabilmente il sentiero tracciato da Morgan (che nel primo libro di limita a citare in un paio di passaggi Quellcrist e sempre in maniera parecchio nebulosa) la serie decide di buttarla sull’amore sensuale e familiare, quello per un’eroina ribelle e quello per una sorella perduta e poi ritrovata. Reileen sorella si dimostra un pallido e prevedibilissimo sostituto del vero “cattivo” del libro (che a conti fatti rimane il tardo capitalismo della nostra epoca), la filosofia alla base del pensiero di Quellcrist viene molto più che banalizzata; si arriva al tradimento.

Altered Carbon è gli altri romanzi di Morgan richiedono sempre un impegno molto più alto della media al lettore, che però sa che l’autore non tradirà mai le premesse iniziali e logiche della sua storia per salvare la pelle al suo eroe o risparmiargli una scena drammatica. In Altered Carbon romanzo sarebbe impensabile che Quellcrist insegnasse – in maniera anche qui molto confusa – a Kovacs come aggirare le regole della realtà virtuale, e piegandola al proprio volere, uscendone a piacimento.

La violenza di Altered Carbon romanzo e delle sue scene di tortura è così brutale perché le regole del mondo virtuale sono inesorabili quanto quelle del mondo reale. Buttandola nel facile giochini della mente alla Matrix, viene depotenziato l’impatto della violenza di quelle stesse scene e, quel che è peggio, vengono private del loro senso, diventando l’epigono del festival della tetta birichina e delle interiora a pioggia di Game of Thrones.
La stessa cosa succede sul versante sessuale, con amplessi al limite del ridicolo, che vorrebbero essere espliciti e travolgenti ma poi incastrano Kinnaman e le sue partner in posizioni innaturali per coprire con lenzuoli e braccia strategiche ogni capezzolo o membro che potrebbe scorgersi in camera.

Il punto di forza di Altered Carbon che andava portato su schermo non sono le scene di sangue e sesso in sé e per sé, tantomeno le scelte più moralmente discutibili del protagonista, che nel processo di adattamento passa dall’essere un essere (dis)umano talvolta orrendo e nichilista a un tenerone appena un po’ scorbutico al primo appuntamento. La vera rivoluzione mancata è di portare su piccolo schermo la ferrea logica interna che giustifica la presenza di quel sangue, quel sesso e quell’ambiguità morale del protagonista, la rende necessaria in una visione verosimile di una realtà in cui la coscienza di tutti è stata digitalizzata, ma l’immortalità è diventata un business per stato e criminalità, un privilegio per i soli noti. È solo puntando su questa coerenza – e su scrittori capaci di scriverci romanzi avvincenti attorno – che si potrà far vivere allo spettatore un futuro lontano da retronostalgie o distopie poco verosimili. Quel futuro che ti fa venire il magone, quando realizzi che è metafora del collante d’ingiustizie che tiene insieme la nostra facciata di libertà e democrazia.

Il blog di Elisa è GerundioPresente.



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