Considerato tra i più accreditati agli Oscar di quest’anno – se non altro per l’incredibile prova della candidata a miglior attrice Margot Robbie – è giunto nelle sale a mani quasi vuote I, Tonya (Craig Gillespie, 2017), mockumentary che racconta la vita, tra scandali pubblici e difficoltà private, della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding. L’espediente narrativo impiegato è quello di mostrare i personaggi 25 anni dopo l’incidente in cui Nancy Kerrigan (Caitlin Carver), avversaria storica della Harding, venne messa fuori gioco da un attentato. I protagonisti della vicenda – Tonya, sua madre LaVona (Allison Janney), il marito Jeff (Sebastian Stan) e l’attentatore Shawn (Paul Walter Hauser) – propongono la propria versione dei fatti articolando le sequenze mostrate e gestendo il ritmo del film, anche se il bluff garantista non sembra funzionare sempre, anche per l’apparente incorruttibilità e la potenza espressiva dell’icona sportiva, l’unica a cui si vuole (presto) concedere il beneficio del dubbio.

Il taglio romanzato e caustico dell’ampio arco di vita raccontato ben restituisce il clima nevrotico nel quale la Harding ha probabilmente maturato il suo peculiare impeto sportivo, fatto di rabbia e desiderio di evasione – umori che ne hanno fatto un’atleta al tempo stesso grintosa ed estremamente fragile – taglio suffragato anche da una fotografia dai toni acidi e da scenografie squallide e spoglie. Mentre la scelta dei diversi segmenti narrativi, ricaduta su infelici momenti d’infanzia – causati da una madre avida e pressante (per quanto poco presente) – frustranti esperienze adolescenziali e drammi relativi alla fase più adulta, sembra invece palesare un problema di coerenza e fluidità nel momento in cui si verifica un radicale spostamento del punto di vista.

Tale spostamento, giustificato dal fatto che il film si presenta come un falso documentario a più voci, e non un biopic esclusivo, sembra comunque tradire lo spirito di una narrazione tesa a creare un sistema gravitazionale stabile attorno alla Harding. Nella fase centrale del film, infatti, forse tentando di imprimere alla storia un ritmo più incalzante e un tono meno drammatico, Gillespie indugia a lungo su un episodio importante ma tangenziale: il piano ordito ai danni di Nancy Kerrigan. La sequenza della preparazione e della messa in pratica del piano da parte marito e del goffo Shawn, condite da qualche banale momento slapstick, sembrano portare fuori dai binari un racconto fino a quel momento solido e simpatetico, cosicché tutto il lavoro fatto sul profilo estetico e psicologico della protagonista viene in parte scalfito, aggiungendo peraltro una mezz’ora di troppo al minutaggio.

Fortunatamente il film si riprende appena in tempo per il grande finale che, nel mostrare fedelmente la tormentata e celebre gara in cui la Harding mette a segno – per la prima volta nella storia del pattinaggio artistico – il triplo axel, riesce a rendere magnificamente, grazie anche a una regia virtuosistica, la momentanea e bramata liberazione di un’atleta il cui passato e futuro erano e sarebbero (ancora) stati solo luoghi di detenzione, insopportabili prigioni fisiche e mentali. Quel montaggio parallelo conclusivo, in cui Tonya finisce a terra dopo un salto mancato e un colpo subito sul ring di wrestling – attività in cui si è successivamente cimentata dopo essere stata bandita dal pattinaggio – è un’efficace metafora di ciò che la Harding è sempre stata e sempre sarà: un’irriducibile combattente capace di “volare come una farfalla e… incassare come un pugile”.



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