3 aprile 1998, Giappone, emittente Tv Tokyo.
Quella sera va in onda la prima puntata di un anime capace come pochi altri di rivoluzionare per sempre il mondo dell’animazione giapponese e non solo, Cowboy Bebop. Il termine “capolavoro” viene spesso usato a sproposito, quasi sempre a caldo, senza pensarci, cavalcando un’onda emotiva che tende a spegnersi in fretta. Nel caso di Cowboy Bebop la Storia ha dato il suo responso: Capolavoro, senza dubbi o ripensamenti.

La storia di Cowboy Bebop è quella di Spike Spiegel, un ex-affiliato del Red Dragon, la Yakuza del futuro, e del suo socio Jet Black, ex-investigatore dell’ISSP, la polizia del sistema solare, entrambi diventati cacciatori di taglie che si spostano di pianeta in pianeta alla ricerca di criminali a bordo della loro astronave: il Bebop. L’universo è in subbuglio: dopo l’invenzione dei Gate, dei portali che permettono di attraversare il sistema solare e dalla distruzione di quello principale, ubicato sulla Luna, che ha causato la quasi distruzione della Terra, gli esseri umani hanno colonizzato molti pianeti e la loro nuova casa è Marte. E’ il 2071, ma siamo tornati al tempo delle frontiere e del Far West, con le astronavi al posto delle diligenze, dove anime perdute vagano senza tetto nè legge.

Cowboy Bebop è una serie composta prevalentemente da puntate autoconclusive, che però costruiscono, lentamente ma inesorabilmente, una trama noir principale, che vede Spike alle prese coi i fantasmi del suo passato, un tradimento e un amore distrutto e distruttivo. La discesa agli inferi del protagonista passa attraverso avventure di ogni genere, durante le quali viene a contatto con un variegato e bizzaro universo popolato da personaggi folli e strampalati, esotici e pericolosi: tra questi, quattro diventeranno la sua (disfunzionale) famiglia: Il disilluso Jet, la procace, sensuale e affascinante Faye, sicura di sè ma solo in apparenza e la folle coppia formata da Ed e Ein, una geniale hacker adolescente ed un cane dotato di un’intelligenza superiore alla media (e talvolta anche al resto della ciurma…). Gran parte del fascino della serie deriva dalle interazioni tra questi quattro personaggi (e un cane) assolutamente antitetici ma impossibilitati a fare a meno l’uno degli altri.

Cowboy Bebop è una serie schizofrenica, capace di regalare momenti introspettivi, malinconici e votati alla rassegnazione e disillusione e subito dopo shockare con sequenze action mozzafiato e gag esilaranti e autoironiche. La parola d’ordine è contaminazione: Shinichirō Watanabe (e la sceneggiatrice Keiko Nobumoto, CowBoy Bebop è una serie molto “femminile”) mette assieme western e noir, fantascienza e azione, thriller e dramma. C’è molto Lupin, specie nella composizione del team, un pizzico di Akira e Sergio Leone, gli spaghetti western e le botte made in Bud Spencer & Terence Hill, ma anche Peckinpah e i classici noir degli anni ’50 e ’60. E poi c’è la musica.

Impossibile parlare di Cowboy Bebop senza prendere in considerazione l’importanza fondamentale che ha la musica nello svolgimento dell’opera. La stessa serie è come una gigantesca, complessa e polimorfica partitura che parte dal jazz, per arrivare al blues, al country e al rock. La compositrice Yoko Kanno e i Seatbelts (la band di cui la Kanno è produttrice, arrangiatrice e tastierista) firmano un’opera monumentale che viaggia soprapposta alle immagini. Impossibile pensare a Cowboy Bebop con una colonna sonora diversa, tant’è che gli stessi titoli degli episodi brillano per “musicalità” (Asteroid Blues, Heavy Metal Queen, Jupiter Jazz, Cowboy Funk, Waltz for Venus…). Tra armoniche e contrabbassi, chitarre e ottoni, il mondo di Cowboy Bebop si disvela nella sua magnifica decadenza.

Cowboy Bebop non è una serie ordinaria o un anime molto ben fatto, è qualcosa di diverso e prezioso, uno di quei rarissimi casi in cui tutto, ma proprio tutto, gira per il verso giusto: una pietra miliare da rivedere o recuperare senza esitazioni. Magari proprio da oggi, per augurare a Spike e al resto del gruppo…Buon Compleanno!



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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