Molto apprezzato in patria, in cui è stato insignito di numerosi premi e promosso al botteghino, Petit Paysan – Un eroe singolare (Hubert Charauel, 2017) – opera prima di un regista francese figlio di allevatori – arriva nelle nostre sale per mostrarci il lato oscuro del fattore che, nel tentare di occuparsi di un’azienda agricola e una folta mandria di vacche, supervisionato/aiutato da genitori pressanti e una scettica sorella veterinario, si troverà a dover contenere contemporaneamente una rara infezione bovina (ispirata al “morbo della mucca pazza”) e un forte esaurimento nervoso. Se Pierre Chavanges (Swann Arlaud), l’algido protagonista, sia più o meno singolare importa davvero poco, poiché ciò che si evince da subito è che, certamente, non è un eroe – come vuole farci credere il bizzarro titolo italiano. Pierre è piuttosto un giovane e fragile uomo che deve decidere se preservare il suo bestiame, la sua fonte primaria di sostentamento, il fondamento della sua affermazione presso la piccola comunità rurale in cui vive, e l’etica. Chiaramente, essendo (come si intuirà da una serie di scelte avventate e atteggiamenti ossessivi) più interessato a se stesso che a tutto ciò che lo circonda, per il quale non sembra provare la benché minima emozione, Pierre opterà per le prime sacrificando ogni cosa, animale o persona sul suo (breve) e dissestato cammino.
Nonostante i temi toccati e i generi sondati siano numerosi e dal diverso grado di approfondimento, il film non sembra capace di garantire un unico e stabile punto di vista e una presa di posizione chiara, smarcandosi completamente da ogni implicazione estetica e morale. Quando Charauel sembra prediligere il linguaggio del documentario – pur non conseguendo mai un realismo vivido e toccante – vira repentinamente al cinema di genere ammiccando all’infection movie – pur ponendo un limite allo sguardo e alla curiosità dello spettatore. A tratti prova a tessere anche le trame del thriller, senza mai sfruttare quel senso di pericolo e urgenza che fanno di quel cinema uno spazio d’azione spasmodico e insostenibile – sì, le mucche si ammalano, spariscono, qualcuno sospetta, eppure tutto sommato c’è ancora tempo per crogiolarsi nella solita routine. Ma Petit Paysan è soprattutto un dramma senza drammi, o meglio, un dramma anaffettivo, dove la tragedia comporta, più che sofferenza, autentica competizione (specialmente con se stessi) e dove i timori danno luogo ad azioni illogiche e spesso sconclusionate. All’interno è presente anche un pizzico di comedy, snaturata dalla totale assenza di gesti e reazioni, il che fa apparire i personaggi meno umani delle vacche (quelle sì, perfettamente in parte e credibili).
Al netto delle pause introdotte dagli sguardi corrucciati e pensosi del protagonista, che non si capisce mai a cosa stia pensando mentre si affanna tra una mungitura, una mattanza e qualche video su youtube, il film durerebbe una cinquantina di minuti scarsi, minutaggio idoneo a presentare un tragico evento senza alcun intervento e/o sentimento. Petit Paysan appare come un film mal amalgamato, frutto di un’evidente mancanza di intenti e una generale confusione creativa, che non vale non solo lo spazio celebrativo della sala, ma nemmeno quello soporifero del soggiorno in un piovoso pomeriggio domenicale…
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