west side story spielberg

Con sette candidature all’imminente cerimonia degli Oscar, West Side Story (2021), ultima fatica dell’inimitabile e inarrivabile Steven Spielberg, si appresta a diventare – con tutta probabilità – l’ennesimo gioiello ignorato dall’Academy a causa di concorrenti apparentemente più ambiziosi e della presunta convenzionalità del suo intramontabile messaggio. West Side Story, come noto, è il remake del celebre film del 1961 diretto da Jerome Robbins e Robert Wise che all’epoca ricevette ben undici nomination e dieci statuette, a sua volta adattamento dell’omonimo musical del 1957, liberamente ispirato alla tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta (1594-1596).

Tuttavia, benché si tratti di materia non certo nuova – il film racconta la storia d’amore tra il polacco Tony (Ansel Elgort) e la portoricana Maria (Rachel Zegler) stroncata sul nascere dagli insanabili contrasti di due bande di immigrati, in lotta fra loro per il controllo fisico e la colonizzazione culturale del mutevole e inconquistabile territorio, una New York selvaggia all’alba della gentrificazione – rispetto alle precedenti rappresentazioni il film sembra sostenere l’idea oscura (peraltro sempre più presente nel cinema di Spielberg) che l’arte non (abbia mai potuto e) possa salvare il mondo dalle sue perseveranti contraddizioni e che la storia si ripete soprattutto nell’errore e nell’orrore.

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West Side Story è tecnicamente ineccepibile, forse uno dei lavori più articolati, virtuosistici e audaci di Steven, eppure, nonostante la sua frenesia compositiva – la messinscena è un autentico orgasmo di soluzioni audiovisive originalissime – nulla della tragedia raccontata appare intaccato, aggirato o accantonato, ma procede spedito verso il suo ineluttabile destino, pronto per essere seppellito e dimenticato, di nuovo.

Purtroppo, sul piano della mera scrittura, soprattutto a causa della sceneggiatura “livellante” di Tony Kushner, il film non sembra trovare un fuoco che ne sfumi le fatuità che, nel bene e nel male, caratterizzano ogni musical – a cui peraltro Kushner guarda con più devozione rispetto al film di Wise – tanto che la storia d’amore non riesce a raggiungere sullo schermo quell’acme emotivo e simbolico in grado di legittimare la tragicità dell’epilogo. Allo stesso modo le licenze attualizzanti sembrano togliere, più che aggiungere, spessore ai personaggi e alle relative storyline. A ripristinare la magia nostalgica dell’omaggio e il realismo crudo della sciagura umana, come in una bizzarra crasi tra Grease (Randal Kleiser) e Saturday Night Fever (John Badham, 1977), ci pensa Janusz Kaminski che dona al film una patinatura sgualcita e un’atmosfera compassata (calda e tornita per le scene con gli Shark e algida e tagliente per quelle con i Jets), che ne scandiscono i contrasti visivi e morali.

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Nonostante il film di Spielberg sia più funambolesco e sfolgorante di quello di Wise, paradossalmente è ben più dolente, la cui storia appare intorbidita dal tempo trascorso, perché a sessant’anni dalla sua prima versione nulla sembra essere cambiato nonostante il progresso e le possibilità raggiunte. La diversità è ancora un problema da estirpare e non un valore da coltivare. E West Side Story, che è un film tanto diverso quanto drammaticamente uguale ai suoi predecessori, è lì proprio per ricordarcelo.



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