Finalmente mi capita tra le mani il perfetto esempio festivaliero per illustrarvi una pratica molto diffusa tra i cineasti che partecipano alla lotta per l’Orso, la Palma e il Leone d’oro. You Were Never Really Here è infatti un caso da manuale di responso critico molto altalenante: chi seguì le sorti del nuovo film di Lynne Ramsay nel giorno di presentazione alla Croisette ricorderà di certo come le recensioni fossero in gran parte negative, incentrate sull’eccessiva lunghezza e vacuità del film con protagonista Joaquim Phoenix.

Quel film, così come raccontato dai giornalisti dalla Croisette, di fatto oggi non esiste: in A Beatiful Day* è davvero difficile riconoscere quella pellicola scoperta attraverso le prime recensioni. Il motivo è semplice: quella che vediamo nelle sale in questi giorni è una seconda versione, rimontata, snellita di tantissime sequenze, ripensata per alcuni versi radicalmente dalla sua creatrice.

Non è una pratica così rara quella appena descritta ed è dovuta principalmente con la fretta con cui molti film vengono messi insieme all’ultimo, con montaggi poco più che provvisori; non mancano storie di film consegnati poche ore prima dell’anteprima mondiale al festival di turno. Chissà se a convincere la regista scozzese di culto a rimetter mano alla sua opera è stata solo la fretta avuta in fase di assemblaggio o anche una riflessione successiva al primo responso della critica.

Certo per dare una valutazione oggettiva di quanto successo bisognerebbe aver visto anche la prima versione, ma leggendo i tanti commenti sui passaggi onirici poco a fuoco e troppo ricorrenti, non si può che tirare un sospiro di sollievo.

Questo perché i pochi momenti onirici e surreali rimasti nel montaggio definitivo di A Beautiful Day sono anche tra i passaggi meno riusciti di una pellicola che – lungi dall’essere un brutto film o un fallimento – non trova una risoluzione soddisfacente come opere precedenti di questa regista. Non è We Need to Talk About Kevin e nemmeno Ratcatcher, ma va bene così e anzi: con la sua operazione ardita e dissacrante, Ramsay ha parecchio da insegnare ad almeno un paio di colleghi.

Il primo cineasta a cui viene voglia di paragonare l’ultimo film di Ramsay è Nicolas Winding Refn, che farebbe bene a prendere appunti. Lui che dal successo di Drive continua senza successo a tentare di azzeccare un film di vendetta e giustizieri chissà cosa pensa di questo tentativo della collega di portare la più trita delle trame da revenge movie al massimo livello di autorialità.

La trama di You Were Never Really Here è di fatto quasi sovrapponibile a quella di un Taken con Liam Neeson. Il protagonista – interpretato da un bolso e vitreo Joaquim Phoenix – è un uomo con un addestramento militare e traumi irrisolti a cui tentano di sottrarre una ragazzina contro la sua volontà.

Nonostante la disparità di forze tra sistema corrotto e singolo duro e puro, i rapitori avranno di che pentirsi amaramente.
La struttura in entrambi i casi è scarna, piena di spazi vuoti. Laddove nella saga di Taken è però sintomo di una mancanza d’impegno, di un appoggiarsi a una formula che funziona cambiano il minimo necessario le variabili narrative, nel film di Ramsay è un lavoro certosino e consapevole.

Per ridare la sua potenza brutale a una trama resa quasi ridicola dal continuo riutilizzo, la regista sottrae ogni elemento non necessario, puntando all’essenzialità più scarna, a un minimalismo che descrive efficacemente lo squallore delle esistenze dei due protagonisti. Quando salva Nina dal giro di prostituzione femminile di alto livello in cui si era cacciata, Joe non può che rivedere sé stesso, la sua storia di abusi che trattiene a stento sotto la superficie.

Quando il meccanismo d’inceppa e tutto precipita – nonostante il suo lavoro accorto e il suo approccio guardingo – anche l’esigua stabilità dell’uomo va in frantumi. Trovare e salvare Nina diventa quindi l’unica via di fuga, l’unico modo per rimanere ancorato alla realtà e risolvere legami con i fantasmi del suo passato.

Per quanti conoscono il cinema di Ramsay non sarà una sorpresa scoprire che anche qui gran parte del sentito e del passato dei protagonisti si desume grazie a finezze registiche di pregio, a piccole inquadrature poetiche di oggetti o volti che svelano a tempo debito una storia che viene raccontata esclusivamente per immagini. Il punto di forza di Ramsay è proprio questo, combinato dalla sua quasi totale assenza di compiacimento per la propria raffinatezza o sensibilità artistica.

Purtroppo, per quanto migliorato rispetto alla versione originale, A Beatiful Day rimane un film che non sa sempre giustificare le sue scelte, se non sul piano prettamente estetico. Se fino a un certo punto, pur nella sua forzata prevedibilità, funziona, quando si ritrova per le mani entrambi i protagonisti comincia a girare un po’ a vuoto. Non siamo più di fronte a Joe e Nina, ma sono tornati ad essere un noto attore hollywoodiano con più adipe e più barba e una giovanissima attrice e modella russa. Qui Ramsay disattende in parte anche le caratteristiche uniche del suo cinema, che l’hanno resa celebre nel circuito cinefilo; i volti stranamente cinematografici il cui aspetto vale più di mille parole, l’autenticità dei lineamenti dei protagonisti, la poesia delle composizioni e delle atmosfere che crea. Proprio quando Joe e Nina dovrebbero dare il meglio come personaggio sopravvissuti e danneggiati che trovano un doppio con cui confrontarsi e riequilibrarsi, alcuni passaggi e battute che vorrebbero essere poetici tracimano nel non-sense. Forse per la prima volta nella filmografia della regista si sente un certo manierismo, la pesantezza del pretenzioso cinema autoriale non è del tutto scongiurata.

Nemmeno a Lynne Ramsay è quindi riuscito di scuotere il genere del film con protagonista un giustiziere, di elevarlo a soggetto autoriale di altissima qualità e dal messaggio impattante senza qualche deriva poco riuscita e compiaciuta. Devo ammettere anzi che, specie sul finale, ci sono delle scene di palese pretestuosità che ricordano Refn. Quello peggiore, saldamente addentratosi nella foresta della sua ambizione egotica e incapace di uscirne. Speriamo Ramsay scelga di percorrere in futuro altri sentieri.

* era da un po’ che i titolisti italiani non ci stupivano con un titolo sotto certi versi così spoiler.

Questa recensione è apparsa in origine sul blog di Elisa, GerundioPresente.



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