Penso che sia impossibile sbagliare una storia di fantascienza con gli androidi protagonisti e non è un caso che Detroit: Become Human si possa considerare il gioco meglio riuscito dei Quantum Dream di David Cage, almeno per quanto mi riguarda. Non è una frase che dica molto sul valore del gioco, me ne rendo conto, visto che al di là dell’apprezzamento parecchio polarizzato tra fan e detrattori dei titoli precedenti, una critica alla struttura narrativa dei giochi di Cage è condivisa da chiunque li abbia giocati. Se da un lato però lo studio francese sembra aver messo a fuoco come raccontare i film interattivi che rappresentano da sempre la sua cifra stilistica, dall’altro aver alzato l’asticella per quanto riguarda i contenuti non ha sortito gli effetti sperato.

Detroit: Become Human è ambientato in un futuro prossimo, all’alba di una rivoluzione/rivolta degli androidi. I casi di aperta ribellione degli aiutanti robotici nei confronti degli umani, alcuni sfociati in impensabili omicidi, sono in aumento. In questo contesto, Detroit invita il giocatore a vestire i panni di un trio di androidi: Kara, aiutante domestica di una famiglia problematica appena tornata dalla riparazione, Markus, assistente di un anziano artista, e Connor, androide utilizzato dalla polizia per indagare sui casi che coinvolgono i suoi simili.

Come nei precedenti titoli di Cage, la trama del gioco si inerpica lungo numerosi bivi narrativi che possono condurre il racconto in direzioni parecchio differenti. Per evidenziare la sua natura di storia dalle molte facce, Detroit introduce la flowchart, un diagramma che al termine di ciascun capitolo evidenzia il percorso seguito e le diverse altre possibilità ignorate. Il suo scopo però non è solo quello di evidenziare ciò che non è stato, ma anche quello di consentire di esplorare le strade non percorse tornando sui propri passi, alleviando almeno parzialmente l’ansia di chi teme le conseguenze delle proprie scelte.

Il prezzo da pagare per esplorare questi futuri alernativi è la ripetizione di sessioni di gioco a volte lunghe e non proprio entusiasmanti. Dopo aver passato una mezz’ora abbondante guidando Kara nelle pulizie domestiche ricompensati dagli insulti del padrone di casa, viene da chiedersi chi sia l’androide che sta eseguendo dei compiti di cui non capisce l’utilità. Rispetto ai giochi precedenti in ogni caso il racconto appare più compatto e meno afflitto da voragini narrative, per quanto i dettagli poco chiari non manchino anche in Detroit.

Laddove il gioco non riesce ad essere all’altezza delle proprie ambizioni è nel messaggio. Gli androidi, sfruttati e temuti dagli umani, sono una metafora generica e tale restano fino alla fine, a prescindere dalla conclusione verso cui il giocatore può decidere di condurre la storia. Ogni complicazione del reale viene appiattita dalla sensazione che in fondo abbiano tutti ragione, che suona un po’ come “Certo le rivendicazioni degli androidi sono sensate, ma…”. E sappiamo tutti benissimo che peso e che significato abbia quel “ma”, vero?!

Già il titolo lascerebbe presupporre tutta una serie di riflessioni. Detroit è la città della rivolta del 1967, la Motor City a un passo dal fallimento per i cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro. Non si può dire che il gioco ignori queste situazioni, ma nemmeno che faccia nulla per approfondirle: la questione razziale è confinata a uno spiegone con cui uno dei personaggi secondari illustra la metafora già abbastanza esplicita del gioco, mentre l’impatto dell’automazione sul lavoro si risolve nella scena della manifestazione degli umani, durante la quale Markus viene accusato di rubare loro il lavoro. Viene quasi da pensare che Detroit sia stata scelta per l’assonanza con Android.

A complicare le cose ci si mette una certa prevedibilità nelle scene più importanti e l’abbondanza di clichè, a partire dal poliziotto alcolizzato per arrivare ai ruoli ritagliati ai personaggi femminili che stridono abbastanza con il presunto messaggio di uguaglianza che il gioco vorrebbe veicolare.

Nonostante l’impennata nei valori produttivi, su tutti la recitazione dei modelli poligonali cesellati intorno alle fattezze di attori reali, Detroit: Become Human non farà cambiare idea a molti dei detrattori di Cage, mentre chi ne ha apprezzato la “poetica” in passato troverà un gioco decisamente meglio strutturato e dunque più appetibile.

A prescindere dia gusti personali, però, Detroit mette in evidenza quanto i videogiochi siano ancora goffi nel trattare la realtà, benché gli strumenti non manchino. Il paragone è ingeneroso, ma a parità di tempo speso di fronte allo schermo, Westworld sviscera una miriade di tematiche che Detroit riesce solamente a sfiorare. Eppure osservando quale sia il rapporto odierno tra i videogiochi e il contesto sociale/politico in cui sono immersi, l’ultima opera di Quantic Dream si può pur sempre considerare come un timido, primo passo, più che mai necessario.

 

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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