Per i veri amanti del romanzo di Louisa May Alcott datato 1868, i capisaldi cinematografici non mancano. Versioni mute degli anni Dieci a parte, il padre di tutti gli adattamenti è di portata abbastanza ingombrate: la versione del ’33 con George Cukor dietro la macchina da presa e Katharine Hepburn nei panni di Jo, futura vincitrice di quattro Oscar che per questa interpretazione vinse a Venezia come miglior attrice. Nel ’49 è June Allyson a ereditare il ruolo in Technicolor per la regia di Mervyn LeRoy. Passano più di quarant’anni prima che si torni a girare la storia delle quattro sorelle March. Nel 1994 l’australiana Gillian Armstrong dirige Winona Ryder che veste i panni della piccola Jo, ottiene il premio dei Critici di Kansas City e viene candidata all’Oscar come miglior attrice.

Greta Gerwig, che dopo aver co-diretto Nights and Weekends più di dieci anni fa è assurta di recente agli onori della regia ottenendo in pieno #MeToo due nomination all’Oscar per Lady Bird, è quindi la seconda donna a dirigere Piccole donne. Una versione post Weinstein-gate in pieno spirito femminista. Sarebbe ingiusto, però, leggerla solo in questa chiave. La stessa Gillian Armstrong nel 1994 aveva dichiarato che il suo Piccole donne era «un film femminista, ma ha anche molto altro da dire».

La Gerwig non esce dal seminato girando in un senso o nell’altro la manopola del femminismo. Lo fa piuttosto con un gioco di sceneggiatura: adotta una strategia che spezza la storia in più punti e la ricuce attraverso la tecnica dei flash-back che, per buona parte del film, si intrecciano ai flash-forward.

Si parte in medias res. Jo è a New York dove insegue il suo sogno di scrittrice e sbarca il lunario facendo l’istitutrice domestica. Amy è in Europa al seguito della zia March che le finanzia un corso di pittura. Meg è a casa, a Concord: ha già sposato l’ex-istitutore di Laurie. Beth è sopravvissuta alla scarlattina, ma è debole, la sua salute vacilla.

Se l’intreccio vi dice poco, consolatevi: sulle prime dà una piccola sensazione di straniamento anche agli iniziati che conoscono la storia a memoria. Ci si rimette in carreggiata in fretta, ma il primo problema della Gerwig è quello dell’aver sparpagliato le carte mescolando da subito sia i piani spaziali sia quelli temporali. La linea della narrazione salta indietro e in avanti, poi torna ancora più indietro. E quando deve seguire Amy in Europa e Jo in America, la domanda sorge (quasi) spontanea: ce le mostra nello stesso momento? O c’è anche qui uno sfasamento di tempo oltre che di luogo?

Nel ’94 Gillian Armstrong aveva probabilmente reso alla Alcott un servizio migliore proprio sotto questo punto di vista. Piccole donne è una storia di maturazione, in qualche modo un precursore del moderno coming-of-age con quattro protagoniste, per quanto Jo (specchio della figura della stessa autrice) ne esca con maggior peso specifico. Il film con Winona Ryder la raccontava magistralmente usando come strumento narrativo proprio il susseguirsi delle stagioni: la neve del Massachusetts, la natura rigogliosa dell’estate, le foglie che ingiallivano e cadevano mentre la macchina da presa si muoveva da una scena all’altra. «Le cose cambiano» osservava la Jo della Ryder, «come è certo che cambiano le stagioni».

La mancanza di continuità temporale svuota invece la versione di Greta Gerwig, da lei anche sceneggiata con una nuova nomination all’Oscar come risultato, del fascino e della patina di comprensione emotiva di una storia che ha bisogno dell’episodio precedente per capire il successivo e per intuire cosa, dal passato, causi le reazioni del presente. L’empatia con le sorelle March, nel romanzo della Alcott, si genera in modo spontaneo e immediato, e resta essenziale anche al cinema per coglierne i sussulti emotivi. Questa versione 2019 li fa apprezzare cerebralmente ma non li fa vivere, perché spesso spiega venti minuti dopo qual è stata la scintilla che, scoccata un tempo, ha causato i comportamenti del poi.

Piccole donne non è un giallo che trae beneficio da mezze verità svelate a rate. Per questo ci vuole almeno un’ora perché il film della Gerwig fiorisca e acquisti completezza narrativa, quando i piani temporali si avvicinano e convergono.

Qualche taglio al romanzo getta una luce più ambigua sul rapporto fra Jo e il professor Bhaer, che pur finiranno per sposarsi. Senza contare che lui dovrebbe essere molto più maturo di lei nell’età e nell’aspetto. E la natura dell’affetto della protagonista per l’amico Laurie, così ben definita nel romanzo e nelle versioni cinematografiche precedenti (fraterna, mai romantica), pare inquinata dalla Gerwig con una sfumatura lievemente enigmatica giusto prima del finale.

Il rapporto fra Jo e Amy sfiora un’acredine che va oltre i punzecchiamenti preadolescenziali descritti dalla Alcott, e i due personaggi si contrappongono curiosamente anche nelle scelte che le portano fuori dalla nativa Orchard House, dove Beth sceglierà invece di restare. Una va a sporcarsi le mani (d’inchiostro) nella Grande Mela alla ricerca di un’indipendenza non legata a un marito; l’altra in un’Europa non scossa dalla guerra prova a coltivare un talento un po’ opaco e pianifica un matrimonio vantaggioso cui, inevitabilmente, volterà le spalle. Per entrambe l’amore non arriverà come avevano immaginato. È Meg a trovarlo dietro casa, e la sua figura – così attenta alle convenzioni – è forse quella più sfocata delle quattro.

Il cast è sufficientemente patinato, dalla Jo di Saoirse Ronan che, dopo la Ryder, diventa la seconda Jo cinematografica nominata all’Oscar, fino alla zia March di Meryl Streep da one-woman-show. Florence Pugh, candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista, brilla come Amy adulta, forse meno come bambina vanesia. Il professor Bhaer, d’origine tedesca, ha il volto (troppo giovane) del francese Louis Garrel, mentre Timothée Chalamet è un Laurie languido, molto moderno. Emma Watson ne esce con onore, ma non è una Meg che buca lo schermo (Janet Leigh nel ’49 piazzò molto in alto l’asticella); forse avrebbe avuto bisogno di più screen-time.

Per il resto, il film ha tutto per piacere alle generazioni del nuovo millennio. L’approccio è fresco (Laurie e Jo sono quasi anacronistici in alcuni atteggiamenti) e la Gerwig non perde occasione per riaffermare come il successo di una donna non passi dalla porta delle ricche nozze d’interesse raccomandate dalla zia March, ma sia sinonimo di una soddisfazione personale fatta di famiglia, affetti e amore per il proprio lavoro.



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