Non si giudica un libro dalla copertina, ma è innegabile che alcune copertine catturino l’occhio e stuzzichino l’immaginazione suggerendo significati – ed evocando sensazioni – che permettono a riflessioni e congetture di farsi strada nella nostra mente ancor prima di iniziare a leggere una sola pagina. In quest’ottica, Le Divoratrici di Lara Williams già al primo sguardo è una festa di allusioni, una dichiarazione d’intenti e, a fine lettura, anche una promessa mantenuta.
Le Divoratrici si presenta in un accattivante e civettuolo rosa con al centro l’immagine di un piatto che ospita colorati residui di cibo. Il libro – a guardarlo e a prenderlo in mano – dà l’idea di una festosa cupcake, ma la fascetta mette subito in guardia sul fatto che il contenuto potrebbe essere meno lezioso del preventivato. Campeggia, infatti, in bella mostra un termine che ha il potere di mettere una gran quantità di persone sul chi va là. Quel termine è: “femminista”.
E in effetti il titolo italiano Le Divoratrici – in originale Supper Club – ci indirizza subito verso un’idea di brama soddisfatta imperiosamente, proprio l’opposto di quello che la buona educazione esigerebbe da una donna.
Alle donne viene insegnato a essere discrete, educate, aggraziate, a non fare troppo rumore, a muoversi leggiadramente senza importunare o infastidire, ad abbassare il volume delle proprie esigenze al minimo, a soddisfare le proprie necessità solo se queste non confliggono con le pressanti aspettative della società, e comunque a procedere sempre con parsimonia, con tatto e gusto, perché la donna deve essere femminile, là dove per femminilità si intende un’apparire e un agire che gratifichino lo sguardo del mondo esterno, prevalentemente quello maschile. In sintesi, a una donna viene richiesto di essere bella e magra.
Alla donna non viene dunque riconosciuto il diritto all’autodeterminazione perché una donna vive nell’occhio di chi la guarda e la scrutina: il suo corpo – e quindi la sua immagine – è un affare pubblico, chiunque può sentirsi titolato a esprimere un giudizio, elargire consigli o ritenersi personalmente offeso da un corpo ritenuto non conforme, da un atteggiamento non comunemente codificato come proprio della sfera femminile. In quest’ottica, anche il complimento è un sopruso perché sottende l’idea che la donna abbia fatto la brava mettendo in atto tutti quegli accorgimenti faticosi, costosi, dispendiosi a livello di tempo, energia e risorse mentali, e financo umilianti per ottenere l’approvazione della società.
Non a caso il classico “Complimenti alla mamma” è strettamente imparentato con il “Complimenti allo chef”: il corpo della donna è qualcosa percepito per lo più a tranci – coscia, petto, bocca – che deve soddisfare gli appetiti della società.
La donna ha un corpo, ma è la società patriarcale ad averne il controllo che viene esercitato soprattutto tramite la dieta. Scriveva Naomi Wolf, già trent’anni fa, in The Beauty Myth
A culture fixated on female thinness is not an obsession about female beauty, but an obsession about female obedience. Dieting is the most potent political sedative in women’s history;
Questo è l’universo patriarcale in cui, come noi, si muove Roberta. Seguiamo la protagonista dagli anni dell’università a quelli della vita di adulta. Attraversiamo e sperimentiamo con lei – lungo le due linee temporali – la solitudine e l’insicurezza di una giovane donna sopraffatta da quel senso di inadeguatezza che urta costantemente contro l’urgenza di piacere. L’aspirazione costante e spesso frustrata è quella di essere accettata dai propri pari, siano essi compagni di università che colleghi di lavoro. Le prime traumatizzanti esperienze sessuali, e la prima relazione che solo a distanza di anni potrà essere elaborata esattamente per quello che era – un rapporto predatorio e sbilanciato – fanno sedimentare in Roberta strati di dolore. Ma quello che solitamente è un nemico giurato per le donne, il cibo, viene trasformato da Roberta prima in un alleato, poi addirittura in un’arma per riconquistare quello spazio fisico e psicologico che la società nega costantemente alle donne.
Roberta, complice l’amicizia con Stevie, un’artista dalla personalità eccentrica e straripante, mette insieme quello che chiameranno il “Supper Club”, una sorta di società segreta, clandestina, in cui un gruppetto di donne si ritrova per consumare e celebrare un atto estremamente eversivo: saziarsi. Lo scopo di Roberta e delle altre è quello di riempirsi, espandersi fino a occupare fisicamente quello spazio che la società patriarcale ha sottratto loro. La protagonista non si limita a cucinare, ma attua un vero e proprio recupero, una nobilitazione di ogni sorta di cibo, soprattutto avanzi, in un’orgia di croccante creatività culinaria che mira a riempire il corpo di tutte quelle donne che finalmente desiderano affermare il loro diritto a esercitare un controllo assoluto su loro stesse, reclamando un potere primigenio sul proprio corpo.
Quale violazione più massiccia di un’adunata di donne impegnate ad appagare i propri appetiti e a occupare spazio? […]
Volevamo espanderci ed essere sfamate: volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo.
Il romanzo è intervallato da succulente ricette che sprigionano un desiderio vivace e vorace per il cibo, ma soprattutto per una vita piena, sazia e compiaciuta che può manifestarsi solo nel momento in cui la donna smette di essere divorata dalla pressione sociale per rivendicare legittimamente la propria fame di cibo, di autodeterminazione, di vita. Di essere lei la divoratrice.
Nota
Le Divoratrici di Lara Williams è edito da Blackie Edizioni. La traduzione dall’inglese è a cura di Dafne Calgaro e Marina Calvaresi.
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