Lo scrittore Ishiguro di fronte a uno specchio

Il grande romanziere britannico, vincitore Nobel per la letteratura, preferisce incursioni sporadiche nella settima arte: «Scrivo romanzi. Amo il cinema, ma in quel mondo c’è troppa insicurezza». L’abbiamo incontrato al festival di San Sebastián per farci spiegare perché ha accettato di scrivere la sceneggiatura di Living, il film di Oliver Hermanus ora nelle sale. E lui ci ha stupito con il suo mix di cultura, gentilezza e rara intelligenza. Parlandoci (anche) del suo amore per il cinema inglese, di cosa lo ha infastidito in giuria al festival di Venezia e del perché non scrive mai sceneggiature basate sui suoi romanzi

 

Lo incontro al festival di San Sebastián. Lui è arrivato insieme alla delegazione di Living, il film di Oliver Hermanus che rilegge Vivere di Akira Kurosawa, trasportandolo nell’Inghilterra del ’52. Kazuo Ishiguro ne ha scritto la sceneggiatura. È la sua quinta in oltre trentacinque anni.

Cinque anni fa ha vinto il Nobel per la letteratura, e il suo Quel che resta del giorno per me è un romanzo-icona: non arrivo al Maria Cristina Hotel, dove abbiamo appuntamento, esattamente disteso. Poi entro nella suite in cui Kazuo Ishiguro sta finendo una tazza di tè. Lui sorride, mi stringe la mano e (anche se so che è l’illusione che sa creare chi è già leggenda) mi fa l’effetto di una vecchia conoscenza. Forse per via dei suoi romanzi. Ishiguro è colto, intelligente, calmo ma incredibilmente arguto.

Ho visto Living al festival il giorno prima, a una proiezione serale. Un’esperienza intima. La storia di un burocrate inglese interpretato da Bill Nighy che si scopre malato terminale e cerca di recuperare il tempo perduto attraverso una nuova amicizia e l’impegno a far sì che un ex-parco giochi pubblico sia riqualificato.

Radici giapponesi per una rilettura britannica. Forse non è un caso che la sceneggiatura di Living sia stata affidata a Ishiguro. Nato a Nagasaki, si è trasferito bambino con la famiglia nel Regno Unito, si è laureato in filosofia e letteratura alla University of Kent alla vigilia degli anni Ottanta e dal 1982 è cittadino britannico. Tant’è che il suo accento è inconfondibilmente inglese.

Elisabetta II si è spenta poco prima dell’inizio del festival. Non possiamo non parlarne.

L’ha conosciuta? Le piaceva?

È stata fondamentale per la società inglese. Ha simboleggiato la comunità britannica, mantenendosi sempre neutrale da un punto di vista politico. Uno dei miei primi ricordi dopo il trasferimento nel Regno Unito, a cinque o sei anni, è vedere la regina passare in macchina. All’epoca non sapevo bene chi fosse. Poi l’ho rivista, ovviamente, ci ho parlato una volta a Buckingham Palace. La sua scomparsa mi rattrista perché Elisabetta II ha rappresentato un’epoca della storia inglese che si chiude. In Living c’è un momento che mostra il passare del tempo, il calendario scorre da luglio ad agosto… e l’immagine del mese di agosto è una foto dell’incoronazione della regina. Visto oggi, lo trovo un momento commovente.

Autografi al festival di San Sebastián © Alex Abril / SSIFF

Cosa le piace delle sue incursioni del cinema?

Non sono uno sceneggiatore a tempo pieno. Negli ultimi trentacinque anni, però, c’è sempre stato qualcuno interessato ad adattare i miei libri per il cinema. Al momento ho sette progetti opzionati, ma è difficile che si concretizzino. Molto spesso ho una sceneggiatura da leggere, poi il progetto naufraga, o passa nelle mani di qualcun altro… Il cinema, insomma, è sempre stato parte del mio background. Mi affascina, forse perché non è il mio lavoro principale. Se vivessi di cinema, uscirei pazzo! C’è troppa insicurezza, un bisogno costante di incontrare nuove persone e di trovare i soldi… la parte artistica a volte ne esce schiacciata. Insomma, adoro il cinema, ma non come lavoro a tempo pieno. Mi sono divertito ad essere nella giuria principale dell’ultimo festival di Venezia, un’esperienza che avevo fatto anche a Cannes. Mi piace parlare di cinema, guardare film: è una parte importante del mio essere uno scrittore. Non avrei scritto quello che ho scritto se non avessi lavorato anche nel mondo del cinema: la finzione in un libro e quella sullo schermo hanno molto in comune.

Non ha mai scritto una sceneggiatura tratta da un suo romanzo, però. Non le interessa?

Non molto. Sono storie che ho già attraversato, lavori che ho concluso. Rivivere quel processo, e senza poter avere l’ultima parola, sarebbe un incubo! È meglio lasciar intervenire uno sguardo fresco sulla storia. Bisogna saper essere spietati nei tagli e nelle modifiche, perché l’adattamento sia interessante per lo spettatore cinematografico.

È difficile guardare un film tratto da un suo romanzo?

Dai miei libri hanno tratto solo due film e un film per la tv. È un’esperienza interessante. Non faccio mai obiezioni, perché so che sarebbero irrazionali: le mie immagini mentali sono troppo personali. Quando guardo un film adattato da un mio libro mi impegno per guardarlo come qualcosa di nuovo. Come se non conoscessi il romanzo. La cosa importante è che sia un bel film. Non credo che la differenza fra film e libro interessi davvero a qualcuno. Il libro era migliore del film? Che domanda accademica.

E i sette progetti opzionati di cui mi parlava…?

In tre casi chi sta preparando il film ha comprato i diritti: ho margini di manovra limitati. Le altre sono opzioni, ho più controllo. Ma cerco solo di assicurarmi che l’adattamento sia fatto dalle persone giuste, provo a non interferire.

Perché ha voluto scrivere la sceneggiatura di Living, un film ispirato a Vivere di Akira Kurosawa?

Kurosawa era uno dei pochi registi giapponesi che venivano proiettati in Inghilterra quando ero un teenager. Era difficile vedere molto altro prodotto in Giappone, così i film di Kurosawa sono stati una finestra sul mio Paese d’origine. Vivere è sempre stato importantissimo per la mia formazione. A diciannove o vent’anni il messaggio di un film era fondamentale per me: volevo poterci trovare consigli o suggerimenti su come affrontare la mia vita adulta. E Vivere sembrava voler insegnare qualcosa di diverso da storie come Canto di Natale o La vita è meravigliosa. Era come se dicesse: difficilmente realizzerai qualcosa di famoso che ti renderà celebre, ma devi accettare il posto che avrai nel mondo. Perché puoi tirare fuori il meglio da ogni situazione. Ho sempre pensato che quel film dovesse essere rifatto in un contesto inglese, e in modo leggermente diverso. Kurosawa l’aveva reso un po’ troppo melodrammatico, girandolo quasi come un action, con zoom, movimenti di camera… Scrivendo Living, invece, volevo emergesse anche la storia personale di un English gentleman e della gentilezza che incarna, e che oggi sembra evaporata dalla società britannica. Ma deve ancora essere da qualche parte! Spero che il messaggio del film, che mi ispirò così tanto da ragazzo, arrivi alle nuove generazioni, e che magari le aiuti a riflettere su chi vogliono diventare.

È un fan del cinema inglese?

Io e il produttore di Living, Stephen Woolley, siamo grandi fan di un certo tipo di cinema inglese, creato fra la fine degli anni Trenta e il secondo dopoguerra. Penso agli ultimi film inglesi di Hitchcock, come La signora scompare, o a Duello a Berlino di Michael Powell e Emeric Pressburger. Ma ci piacciono anche i film di Basil Dearden come I giovani uccidono, e amiamo The Way to the Stars di Anthony Asquith. Una scuola che sembra dimenticata. È strano, ma durante la guerra i registi avevano grande libertà creativa e facevano grandi film. Dopo la guerra, sia l’industria cinematografica sia la società inglese ha perso la sicurezza che circondava un certo modo di essere British. Con gli anni Cinquanta non si trovano più eroi come quelli che vedi interpretare a Michael Redgrave in La Signora scompare. L’eroe British si comporta e parla diversamente, diventa più americano. Era nata una nuova generazione di attori, da Michael Caine a Sean Connery… ma erano diversi.

Oggi il cinema giapponese sembra attraversare una fase fortunata, invece.

Certo. Kore’eda, Hamaguchi… Ma anche negli anni Cinquanta il Giappone visse un’epoca d’oro per il cinema. È pazzesco: in cinque o sei anni uscirono parecchi capolavori, oggi considerati fra i più grandi film mai girati, piazzati in parecchie classifiche. Film di Mizoguchi, di Kurosawa, di Kobayashi. Poi, una battuta d’arresto. Sono fasi. Succede a tutti i cinema. Anche il vostro è passato attraverso fasi bellissime e fasi meno belle. Adoro il cinema italiano degli anni Settanta, la tradizione di Francesco Rosi e dei fratelli Taviani… preferisco loro a Fellini o ad Antonioni. Certo, parliamo di culture cinematografiche più fragili di quella americana: quella francese, giapponese, italiana… non possono competere con la gigantesca industria di Hollywood. Anche perché il panorama economico è cambiato. Se pensiamo al Giappone degli anni Cinquanta, il pubblico dei cinema era vastissimo: ci andavano tutti, si vendevano tantissimi biglietti. Poi basta.

Posso chiederle del Nobel? Prima o poi doveva venire fuori nella conversazione…

È stato un onore, ma non ci penso troppo. Dopo un premio del genere devi andare avanti. L’ho ricevuto a 62 anni… un’età a cui non puoi certo fermarti! Sto facendo attenzione a non cadere in quella che la comunità scientifica chiama “la sindrome del genio”: scienziati che si specializzano in un settore preciso, vincono il Nobel e… pensano di essere diventati specialisti in tutto! E parlano anche di materie di cui non sanno niente. Con la letteratura è diverso, ma devo starci attento.

Dopo il Nobel gli editori osano ancora chiederle di cambiare qualcosa?

È un problema, in effetti! [ride, NdR] Non farò nessun nome ma, dopo aver visto ventitré film in concorso a Venezia… credo sia un tema rilevante anche per molti registi: arrivi a un certo punto e nessuno ha più il coraggio di dirti che il tuo film deve essere tagliato di 45 minuti!

© Alex Abril / SSIFF

Com’è andata a Venezia?

Ho avuto il COVID. Per tutta la seconda parte del festival ho visto i film nella mia stanza. Ma non ho avuto sintomi. Mia moglie li ha avuti, ho fatto il tampone per quello, altrimenti non me ne sarei accorto. Quindi ho potuto vedere molti film da solo, in tranquillità. Vederli in una grande sala, con un red carpet, urla assordanti, riflettori ovunque e applausi finali, altera la tua possibilità di giudicare in modo oggettivo. Mi sono concentrato meglio in albergo, con il mio laptop. Le decisioni sono raramente unanimi, ma c’erano cinque o sei film che piacevano a tutti noi giurati: i premi principali sono stati divisi fra quelli, senza grandi disaccordi.

In un momento così complesso, qui a San Sebastián diversi film parlano di immigrazione o di fasce deboli…

Ecco perché il cinema è importante. Non sono sempre film che riempiono le sale, ma è importante che la letteratura e il cinema mostrino anche quel lato della nostra società e del nostro presente. Una cosa mi ha disturbato a Venezia: ho visto ventitré film, e tredici avevano come personaggio principale un grande regista, un direttore d’orchestra, uno scrittore famoso, una star del cinema… Non critico nessuno di quei film, singolarmente. Alcuni erano fantastici. Mi ha infastidito il trend. Il mondo è una situazione così precaria; perché la maggior parte dei film a uno dei festival del cinema più grandi si concentra su un’élite? È una coincidenza? È perché la pandemia ci ha resi individualisti? Non avrebbero dovuto esserci più film come quelli che state vedendo qui?


Spengo il registratore e gli chiedo un autografo.

Esce con me dalla suite. Non so quante interviste debba ancora fare. “Devo tornare in camera mia un momento”, mi spiega. Percorriamo insieme il corridoio del secondo piano. “C’è qualche regista italiano che le piace, in questi anni?” mi chiede mentre camminiamo. Mi faccio coraggio: “Guardo più volentieri altri film europei, ma ho apprezzato molto alcuni film di Garrone e soprattutto di Guadagnino: li preferisco a Sorrentino”. “Ha visto Bones and All di Guadagnino?”. “Non ancora” gli rispondo, “non ero a Venezia, e sono partito per San Sebastián il 15 settembre”. Parliamo dei film della scorsa stagione, e gli cito Belfast. Azzardo un’ultima domanda: “Le è piaciuto?”. “Abbastanza”.

Arriviamo alle scale. Ci stringiamo la mano. “Grazie per il suo tempo” gli dico. “Grazie Alex” mi risponde, “mi ha fatto piacere. Take care”.



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