In uno dei primissimi ricordi che riesco a riportare a galla mi vedo, piccolissimo, seduto sul lettone in camera dei miei. Non ricordo nemmeno più che casa fosse, ma so per certo che io e mia mamma siamo seduti sul lato lungo del letto, rivolti verso il comò su cui poggiava il vecchio televisore a tubo catodico. Di fianco alla TV c’è una scatoletta in plastica. Era un regalo di mio zio, chissà per quale occasione o per quale motivo. Probabilmente, quel Atari 2600, oltre a essere stato il mio primo incontro con i videogiochi, è anche il motivo per cui oggi sono chi sono e dove sono. Ad ogni modo, in quel ricordo mia mamma sta giocando a Battlezone di fianco a me, eccitatissimo, per il punteggio irraggiungibile per me bambino, mentre mio padre ci osserva sulla porta, col sorriso non tanto per il quadretto familiare, quanto piuttosto per la meraviglia tecnologica a cui sta assistendo. A memoria, passata la sbornia del 2600, non mi è più capitato di giocare con i miei giocatori a un videogioco.
La nostalgia si è infiltrata così in profondità nelle radici dell’intrattenimento da diventarne una categoria di riferimento con un suo nome proprio: la retronostalgia. Come se potesse esistere una nostalgia sganciata dal passato. Insomma, la retronostalgia è una categoria merceologica. Però, c’è un però: il settore del videogioco ha un enorme problema di conservazione della propria storia e della propria memoria, che abbastanza paradossalmente la diffusione di prodotti che richiamano o ricalcano il passato contribuisce in qualche modo a colmare. Tutto questo preambolo, insomma, serve a dire che per me Atari 2600 resterà per sempre la console del cuore, raggiunta ma non superata qualche anno dopo solo dal Mega Drive, ed è impossibile per me scindere del tutto questo affetto nella valutazione di tutto ciò che lo riguardi. D’altro canto, sono ben consapevole della natura in qualche modo speculativa di tutti quei prodotti che pescano dall’infanzia dei millenial, per quanto anche operazioni commerciali di questo tipo abbiano risvolti utili in termini di conservazione storica.
Finite le note introduttive, è giunto il memento di introdurre: prodotti.
Rispetto alle altre retro-console sul mercato, Atari 2600+ si differenzia per alcuni dettagli. Per Nintendo e Sony, il salto nel passato si è materializzato “giochificando” i propri vecchi sistemi, trasformandoli in soprammobili di pochi centimetri, riproduzioni perfette e in miniatura contenenti un emulatore e una manciata di rom. Il mini-SNES o la mini-PlayStation sono sistemi chiusi, che consentono di giocare una selezione blindata di titoli. Sul mercato però esistono altre retro-console, di produzione indipendente, ingegnerizzate per garantire la compatibilità anche ai supporti originali dell’epoca. Il 2600+ di Atari si pone dunque in una posizione mediana, è grande quasi come la console originale degli anni ’80 e può eseguire solo cartucce originali di Atari 2600 e del successivo e più potente 7800.
Dal punto di vista della conservazione del videogioco questa scelta di Atari è interessante perché in qualche modo sottrae le cartucce originali di 2600 e 7200 alla bolla speculativa che ha inglobato il retrogaming nell’ultimo decennio, riportandole a un contesto di utilizzo concreto, ma apre anche a uno scenario in cui la commercializzazione di riedizioni dei giochi originali è possibile (magari in cartucce multi-titolo come quella inclusa nella scatola). D’altro canto, il mancato supporto alle ROM (ovvero le immagini dei vecchi giochi archiviate in internet) è di sicuro una scelta legittima come rimedio anti-pirateria, visto quanto facilmente siano state crackate le altre retro-console, ma di fatto limita la possibilità di usare Atari 2600+ come strumento di fedele riproduzione alla disponibilità e all’accessibilità delle cartucce ancora esistenti.
La fedele riproduzione cui qui sopra è da intendersi tuttavia soprattutto dal punto di vista materico e tattile, ma anche visivo. Atari 2600+ ricorda molto da vicino il suo antenato: è giusto un po’ più piccola, ma i materiali sono quelli, anche la finta radica richiama le stesse sensazioni di decenni fa su polpastrelli. Lo stesso si può dire dell’iconico joystick e del suo rosso pulsante, scomodo come me lo ricordavo. Dentro la sua scocca plasticosa, tuttavia, batte un cuore nuovo di zecca: un processore moderno che trasforma i dati della cartuccia inserita in una ROM da emulare e rimandare a video con cruda fedeltà.
L’effetto può apparire straniante, i 160×192 pixel del 2600 sparati su un 55″ 4K sono un’esperienza abbastanza lisergica che Atari ha deciso non ammorbidire con scanline generate via software o altri artefatti. Altrove, invece, si è rivelata più aperta alla modernità, quasi un vezzo nel caso del simbolo che si illumina sul fronte della console, una necessità inevitabile invece sono l’uscita HDMI e l’ingresso USB utile sia per l’alimentazione, sia per l’aggiornamento di sistema attraverso cui Atari ha intenzione di aumentare nel tempo il numero di cartucce compatibili.
Pur inserendosi in un settore che ha conosciuto parecchi successi nel passato recente, Atari 2600+ può essere considerato comunque un azzardo, tanto perché replica una console decisamente meno nota al grande pubblico, quanto per il modello commerciale scelto che poggia sulle cartucce. Se dal punto di vista commerciale saranno altri a fare le loro valutazioni, da quello della conservazione del videogioco invece Atari 2600+ rappresenta senza dubbio un esperimento interessante. Oltre all’ovvia possibilità di far scoprire a una platea moderna le prime espressioni del videogioco, di cui alcune formule e sintesi sopravvivono ancora oggi, l’aspetto più interessante è però la possibilità di sottrarre i vecchi giochi al mercato collezionistico, dove il loro valore è penalizzato dall’utilizzo, e riportarle nel contesto dell’uso quotidiano, restituendo ai giochi contenuti all’interno della scocca in plastica la possibilità di essere prima di tutto giocati, e in secondo luogo ricordati, tramandati e conservati.
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