Dopo il Sudest del deserto californiano di West of Babylonia, per il secondo capitolo della sua trilogia dedicata all’Ovest degli Stati Uniti Emanuele Mengotti si è spostato a Las Vegas. Una città che conosce bene: è lì che, in piena pandemia, ha girato Rosso di sera, premiato al Biografilm Festival nel 2022, che mostra le crepe dell’American dream in una città che fa i conti con le sue contraddizioni e con un nuovo virus.

Oggi, mentre prepara il capitolo conclusivo della trilogia, il regista di Venezia svela i dietro le quinte del suo documentario e cosa significa girare in un’America lontana dai paesaggi da cartolina.

È vero che, prima di girare Rosso di sera, stavi lavorando a documentario sulle elezioni americane del 2020, ma poi la pandemia ha cambiato i tuoi piani? 

Tra il 2019 e l’inizio del 2020 vivevo a Las Vegas, dove avevo deciso di iniziare le ricerche per il mio nuovo film: il secondo capitolo della mia trilogia di film dedicata al West americano. Dopo la mia opera prima, West of Babylonia, in realtà avevo deciso di spostare il mio sguardo verso il mondo sotterraneo di Las Vegas più che sulle elezioni. La città, infatti, è percorsa per migliaia di chilometri da una rete di tunnel sotterranei che servono per drenare le acque dei monsoni. Essendo una città desertica circondata da montagne, Las Vegas è spesso colpita dai monsoni: in passato hanno causato gravi allagamenti, distruggendo parti della città e causando morti. Per questo la città ha deciso di costruire questa rete di tunnel e canali. Col passare del tempo, i tunnel sono diventati rifugio per molti senza tetto che cercavano un posto dove vivere, lontani dalle attenzioni della polizia. La mia prima idea era quella di raccontare questo mondo. Durante il periodo di ricerca, seguivo ogni giorno storie e vite che si intrecciavano con il resto della città. Ma quando è iniziata la pandemia, e con la partenza della campagna elettorale, mi sono sentito in dovere di allargare lo sguardo per raccontare in modo più ampio tutta la città, partendo dal sottosuolo per arrivare alla periferia. 


Come hai scelto i personaggi da seguire? Il medico, l’attrice di B movie, la coppia che vive nel sistema di drenaggio. Volevi farli diventare simboli di una fetta della società USA? O eri più attratto dalla loro personalità, dal loro aspetto umano? 

Per ogni personaggio c’è una storia diversa. La coppia che vive nel sistema di drenaggio è speciale: con loro ho creato un rapporto di amicizia e di condivisione unico. Ci siamo frequentati per lunghi periodi, ci siamo conosciuti bene ed abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. Il mondo sotterraneo di Las Vegas è molto pericoloso, non puoi fidarti di tutti. Ma con Steve e Kat mi sentivo a mio agio. Mi hanno insegnato tanto e io con loro ho condiviso tanto della mia storia, della mia vita e del mio lavoro. Con il medico è stato diverso. Cercavamo una figura specifica, proprio col suo profilo: io e il direttore della fotografia Marco Tomaselli abbiamo deciso di fare delle ricerche su tutta la città. Con lui la relazione è stata diversa, più professionale. La ricerca del medico è avvenuta mentre emergevano i primi casi di COVID: la tensione e la paranoia erano alte, e noi cercavamo di frequentarci il meno possibile. Non potevamo condividere altri momenti al di fuori di quelli lavorativi. A proposito dell’attrice di B movie, invece… è stato molto diverso. Lei era candidata alle primarie con i Repubblicani di Trump e, quando ha visto la nostra telecamera durante le manifestazioni di estrema destra, si è subito fatta avanti, ci ha cercato. Posso dire che è stata lei a sceglierci. I personaggi che ho seguito superano le singole personalità e l’aspetto umano: sono archetipi che incarnano in modo diverso il sogno del mito americano.

Rosso di sera di Emanuele Mengotti

Chi è stato il più difficile da seguire con la macchina da presa? 

Tutti avevano le loro criticità; seguire la vita di una persona ai margini della società all’interno dei tunnel di Las Vegas, dove non c’è luce e le minacce sono continue, non è assolutamente facile. Per motivi diversi, non è facile nemmeno seguire la vita di una candidata come Mindy, vulcanica, sempre in movimento. Ma il più difficile di tutti, forse, è stato il medico. La situazione in cui lavorava e viveva ci ha messo di fronte a molti limiti. Trovarsi faccia a faccia con una pandemia e non avere né i mezzi né la conoscenza per combatterla lo portava a mantenere il più possibile le distanze da tutti.

Avete mai avuto paura o vi siete sentiti mai in pericolo durante le riprese? La tua famiglia in Italia sapeva a cosa stavi lavorando, in quelle settimane del 2020 in cui sembrava che il mondo si stesse fermando?

In alcuni casi abbiamo percepito un senso di pericolo di fronte a una pandemia sconosciuta, il terrore che i media seminavano, la violenza nelle strade portata dagli estremisti armati… ma il momento in cui ho realmente sentito un brivido lungo tutta la mia schiena è stato il giorno in cui ho iniziato le ricerche. Stavo esplorando da solo uno di quei famosi tunnel di cui avevo letto tanto. Mi sono trovato a fissare il buio completo, in uno spazio lungo chilometri, completamente ignoto: poteva nascondercisi qualsiasi cosa o qualsiasi persona. È stata una paura primordiale, difficile da spiegare. Mi sono dovuto fermare qualche momento per riflettere. Volevo davvero fare questo film? Ero pronto a entrare in quel buio e a catturare delle immagini per portarle alla luce? Ho deciso di non pensare e di fare un passo alla volta. Se avessi ascoltato l’istinto, non sarei mai entrato in quel tunnel.

Il finto Elvis che apre il film, con il rito del make-up e poi la scoperta di non poter lavorare: durante una proiezione a Roma, qualcuno parlava di una metafora della società di Las Vegas, città finta per eccellenza secondo molti. Cosa c’è in realtà dietro quell’incipit? 

La figura di Elvis rappresenta Las Vegas, una città fatta di apparenza che imita e si nutre di immagini e miti esistenti. Una città che ormai è diventata una copia di sé stessa, una replica dei fasti degli anni passati. Lo stesso Elvis è una versione decadente e deformata di quello che si esibiva all’apice della carriera. I suoi preparativi per lo show ci raccontano di un film che avrebbe potuto narrare altro, ma che improvvisamente ha visto la sua traiettoria spezzata da uno tsunami sanitario e sociale che avrebbe fatto storia. Elvis e la storia di Las Vegas si fermano qui, restano sospese, lasciano spazio dietro alle loro sagome ingombranti a storie che normalmente restano sullo sfondo. Queste storie, per me, sono fondamentali e vanno portate alla luce per capire davvero la società americana. Uno dei personaggi del film, infatti, già nelle prime scene ci introduce al concetto di Apocalisse, al momento che stiamo vivendo. Per lui l’Apocalisse non rappresenta la fine del mondo, ma va interpretata nel suo significato più profondo: rivelazione. L’Apocalisse diventa uno sguardo penetrante, una luce che mette in mostra ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto. La pandemia, in parte, ha agito in modo simile, rivelando sfaccettature della nostra società e della condizione umana che prima ignoravamo.

Con che camera hai girato un film così particolare? 

Il direttore della fotografia ha deciso di utilizzare un Mavo Kinefinity, una telecamera molto sensibile alla luce, perfetta per tutte le scene che abbiamo girato all’interno dei tunnel. 

Rosso di sera di Emanuele Mengotti

Dopo West of Babylonia nel deserto californiano e Rosso di sera, hai in programma di chiudere la trilogia? 

Per il prossimo film tornerò in California. Sarò sempre nel deserto, ma in questo caso le temperature si alzeranno: girerò vicino alla Valle della Morte. Sarà il terzo e ultimo capitolo della Trilogia del West americano: la mia ricerca del sogno americano in tutte le sue declinazioni. Potrò confrontarmi con una piccola cittadina sospesa nel tempo che, nonostante le difficoltà, continua a cercare lo stesso sogno che l’ha creata. Sono contento perché, con questo film, potrò contare su una co-produzione tra Italia, Belgio e Messico che ha creduto nel progetto. Trovare produttori coraggiosi come Leonardo Barrile e Kristian Van der Heyden mi fa sentire a mio agio: posso sperimentare nuovi linguaggi e sviluppare storie ambiziose.  

Sei tornato al Biografilm Festival per la seconda volta, nel 2022: Rosso di sera ha vinto due premi. La cosa più interessante del festival, secondo te? 

Il Biografilm per me è un festival speciale. Ho avuto la possibilità di presentare lì entrambi i miei film e nel 2023 ho presentato proprio al festival, per la prima volta, l’idea del mio prossimo film all’interno del Bio to B, la sezione che promuove i progetti working progress. Il Biografilm è un polo di scoperta e condivisione, di incontri e confronti. La selezione dei film proposti offre titoli di grande interesse, attenti alle tendenze del momento, e ha sempre un forte impatto narrativo. Essere a un festival di questo livello dà anche la possibilità di conoscere nuovi registi e registe, e di confrontarsi con loro e con i loro lavori. 

È in partenza “Rovine d’America”, la rassegna dedicata alle ferite e a quel che resta del “sogno americano”, in qualche modo. Cosa possiamo aspettarci? 

È una rassegna di tre documentari di tre registi italiani under 40 che esplorano un’America spezzata, che si confronta con la crisi del sogno americano e con un conflitto culturale che coinvolge artisti, senzatetto, attivisti, fuorilegge. Offre uno spaccato su una nazione in trasformazione: dalle rovine del suo passato mitizzato sembra sollevarsi una sorta di grido di liberazione. Tre storie diverse raccontate con sensibilità diverse. Oltre a West of Babylonia fanno parte della rassegna Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna Della Sala, film selezionato a Locarno, vincitore di diversi premi al Festival dei Popoli e tra i dieci finalisti dei David di Donatello per il premio per il miglior documentario. Un documentario poetico, frutto della sensibilità della regista che ha deciso di immergersi nella comunità di Bombay Beach cogliendo il potere salvifico dell’arte. Un documentario fatto di immagini evocative, dal potente valore simbolico, che trasportano lo spettatore in un luogo sospeso tra realtà e magia. Stonebreakers di Valerio Ciriaci, che ha vinto diversi premi al Festival dei Popoli, ci porta negli Stati Uniti nel 2020: nel bel mezzo della rivolta Black Lives Matter e dell’elezione presidenziale, quando scoppia la battaglia sui monumenti storici. Un conflitto culturale che travolge statue di Colombo, confederati e padri fondatori, e mette in discussione il racconto del mito americano. La necessità di portare questi tre film in sala e sulla piattaforma ZaLab View nasce dalla voglia di un confronto con il pubblico, e dal voler stimolare un dibattito dentro e fuori dalla sala per far conoscere un’America diversa.



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