Nel passaggio dalle sapienti mani nipponiche di Capcom a quelle apparentemente inesperte e britanniche di Ninja Theory, Devil May Cry guadagna un triplice sì in risposta ad altrettante, implicite domande: prima di tutto, riguardo la degna appartenenza alla saga; in secondo luogo, sulle sue eventuali doti come action game. E infine, questione forse più importante, sui suoi complessivi meriti come videogioco.

Questo triplice successo poggia su un coerente progetto di design, legato allo sdoppiamento tra un cuore oscuro e uno invece luminoso; dualismo, questo, che attraversa ogni anfratto creativo, dal sistema di combattimento, passando per il design dei livelli, fino ad arrivare all’arrangiamento narrativo e stilistico.

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Già la trama mette in chiaro questa ambivalenza da subito: Dante è un Nephilim, ovvero il risultato dell’unione tra un angelo e un demone. Anche il sistema di combattimento, che abbandona il “revving” del quarto episodio, e che scarta gli stili alternabili di Devil May Cry 3 e 4, si snoda attraverso l’utilizzo di due contrapposti gruppi di armi. All’impostazione classica dei controlli, rappresentata da salto, spadata e arma da fuoco, si sovrappongono due varianti.

Tenendo premuto uno dei due grilletti – destra per le armi demoniache, e sinistra per quelle angeliche – il sistema, pur mantenendo il medesimo layout, triplica le sue possibilità grazie alle differenti caratteristiche dei due strumenti di offesa. Da un lato, le armi bianche sono più veloci e di lunga gittata, permettendo la negoziazione di ampi gruppi di nemici; dall’altro, le armi demoniache rispondono con il loro maggior danno, oltre che con la possibilità di bloccare – se il tempismo viene rispettato e dopo un opportuno caricamento di ogni colpo – l’avanza dei nemici più coriacei.

Il risultato è un sistema di semplice comprensione, ma di fattura composita e profonda, che pur allontanandosi dalle caratteristiche dei suoi illustri predecessori, ne mantiene tuttavia il feeling generale. Dove si è perso in tecnicismo e spettacolarità, si è guadagnato in strutturazione, dato che il bestiario nemico è ovviamente composto di creature che subiscono danno solo con un armi di segno specifico, aggiungendo un pizzico di logica e strategia agli scontri, soprattutto affrontando i livelli di difficoltà più elevati.

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Torna invece la possibilità di attirare i nemici a sé, o di farsi invece trasportare da loro; se però ai comandi di Nero in Devil May Cry 4 era la mole dell’avversario a decidere il segno del moto, qui è ancora una volta la tipologia di arma utilizzata. Quelle di luce spostano Dante, mentre quelle oscure attirano i nemici, meccanica che è stata peraltro estesa anche alla deambulazione aerea negli scenari.

Pur limitandosi a serie di salti che richiedono una coordinazione piuttosto semplice, la nuova centralità degli spostamenti contribuisce, grazie a una oculata gestione degli spazi e dei ritmi, alla valorizzazione estetica degli stessi scenari, che spesso offrono vedute di grande impatto, e che sono anzi il maggior vanto del prodotto. Sposando anch’essi il dualismo nominato in apertura, si configurano come un personaggio aggiuntivo, anzi quello centrale, a cui di fatto non manca nemmeno la parola. Oltre a modificarsi contestualmente al nostro passaggio, non perde occasione per insultarci, sia con la comparsa di espressioni poco amichevoli sulle pareti, sia espletandole verbalmente; impressione confermata dalla composizione dell’ultimo boss – che estremizza questa tendenza all’antropomorfizzazione – e da escursioni dalle parti del Suda51 di Lollipop Chainsaw, e del Tetsuya Mizuguchi di Rez, in corrispondenza delle fasi più psichedeliche.

Più in generale, l’estetica sposa soluzioni eterogenee, miscelando il Carpenter di They Live e di Big Trouble in Little China– da cui riprende rispettivamente l’ossatura distopica pop e il look metropolitano apocalittico – con soluzioni narrative che strizzano l’occhio al Borges de L’Aleph, strutturando timide configurazioni labirintiche e più radicali sdoppiamenti verticali. Il risultato è un orwelliano 1984 in acido, composto con l’ausilio del più classico bricolage post-moderno, che però risplende di personalità, nonostante le influenze contraddittorie. Ne sia un esempio il comparto narrativo, che rimediando da un lato i dipinti di Caravaggio – aggiornandoli però al contesto cittadino – e dall’altro un inventario di boss tanto disgustoso quanto scurrile, conferma il progetto complessivo alternando continuamente alto e basso, sacro e profano, angelico e demoniaco.

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Si tratta  quindi di un Devil May Cry coraggioso e personale, che risponde a testa alta alla sfida creativa degli sviluppatori nipponici, spesso con scelte consapevolmente impopolari, come il doloroso compromesso legato al frame rate, ancorato su 30fps, almeno su console. Una simile scelta, soprattutto considerato che il titolo è di fatto l’ultimo esponente di una saga che ha contribuito a crearlo, il genere action, non dev’essere stata semplice.

La scommessa complessiva è però vinta, a seguito di una partita giocata senza timidezza, ma anzi ostentando un certo orgoglio british: la bandiera sulla spalla di Dante parla chiaro, in questo senso; e anche lo sketch riguardo la sua capigliatura, e lo sfottò al continuum temporale della saga, che rientra con rispetto nel finale, ribadisce la capacità di Ninja Theory di addomesticare con sapienza e stile un’operazione molto delicata, attestando senza remore la capacità del team, che ora svetta in alto, accanto ai colleghi orientali.

DmC: Devil May Cry è disponibile dal 15 gennaio per Xbox 360 e PS3, e dal 25 gennaio per PC.

 



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2 Comments

  1. Io dico che dopo le prime due missioni di #DmC c’ho dei momenti della giornata dove vorrei mollar tutto il resto e andare a giocare. Se potete prenderlo su PC, non pensateci due volte, a livello di pulizia e frame rate siamo decisamente da un’altra parte.

    1. Ho visto dei video dell’edizione PC… è proprio un’altra roba!

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