Dicembre 1982: nelle edicole italiane arriva Video Giochi, la prima rivista dedicata ai…videogiochi. Per molte persone la vita cambia per sempre. Players intervista Riccardo Albini, il giornalista, visionario e imprenditore che diede inizio alla rivoluzione videoludica in Italia. Oggi Albini è a capo di Tuangon, società con relativo sito tutto italiano che si occupa di formare gruppi d’acquisto, con lo scopo di far ottenere forti sconti a tutti gli acquirenti. Per noi di Players ha accettato di tornare indietro nel tempo.

Fast Rewind a 28 anni fa…

Eravamo usciti con il primo numero il 15 dicembre 1982 anche se era datato gennaio 1983. Al tempo eravamo un piccolo gruppo di giornalisti che forniva contributi a diverse case editrici e siccome uno dei nostri aveva un contatto con la Jackson, casa editrice che si occupava di computer ed informatica, proponemmo loro di fare una rivista dedicata esclusivamente ai videogiochi. Io avevo vissuto qualche tempo negli States e facevo la spola per lavoro tra gli USA e l’Italia. Lì era già uscita da un anno Electronic Games e si capiva che stava cominciando qualcosa di importante. Ai tempi avevo già quasi 30 anni, ho iniziato a giocare giusto prima di “scollinare” e finire nella generazione di quelli che non sanno cosa sia un videogioco. Il primo numero di Video Giochi è stato realizzato in un mese scarso partendo da zero. Certo, un po’ abbiamo scopiazzato…

Come venne assemblato il team di redattori?

Eravamo già in quattro e io ai tempi ho scritto tantissimo. Stefano Guadagni si occupava dei computer, ma dopo il primo numero il problema si pose drammaticamente, anche perché è vero che le riviste di informatica esistevano già, ma i giornalisti che ci scrivevano ci vedevano come la feccia del settore, volevano parlare solo di sistemi operativi. Così abbiamo trovato ragazzi tra i lettori che fossero capaci di scrivere. È stato più facile trasformare giocatori in giornalisti che giornalisti in giocatori.

Le aziende del tempo vi supportarono?

Sì, perché eravamo gli unici a parlare di videogiochi. C’è anche da dire che al tempo esistevano molti distributori ma quasi nessuna filiale italiana delle varie software house.

Quante copie tirava Video Giochi?

All’epoca 50 mila copie, fu un bel successo editoriale. Anche K arrivò a vendere quella cifra. Nel  1983 ci fu la crisi dei videogiochi negli States ma noi ne vedemmo gli effetti solo l’anno dopo.  Furono però due crisi diverse: quella americana riguardò tutto il mondo dei videogiochi, da noi si verificò solo il passaggio dalle console ai computer e cominciarono a girare i giochi copiati.

Questo incise sulla fine di Video Giochi? Poi iniziò l’avventura di Zzap!

Video Giochi venne chiusa perché, a causa della crisi, vendevamo di meno. Jackson era piuttosto “decisionista” ai tempi e non si facevano problemi a chiudere le riviste che non raggiungevano certi risultati. Noi provammo a spiegare che si trattava di una crisi passeggera ma senza risultati. Iniziammo collaborazioni estemporanee fino a che non venimmo contattati dall’editore inglese di Zzap! per fare la versione italiana, che realizzammo, primi in Italia, in desktop publishing col Mac. Quando l’editor capì che poteva farsela da solo (noi eravamo Studio Vit, quindi di fatto collaboratori esterni), magari pagando meno i redattori, ci fece chiudere adducendo varie scuse (come ad esempio l’aver chiuso in ritardo un numero cui aveva dato una dead line impossibile da rispettare).

Zzap!

Però…fu quasi un colpo di fortuna, visto che iniziò l’avventura di K.

Avevamo un ufficio in Viale Papiniano a Milano e il bar dove pranzavamo era  frequentato dagli editori della Glénat Italia, così, chiacchierando, saltò fuori il loro desiderio di fare una rivista di videogiochi e nacquero prima K e poi Game Power. Anni dopo Glénat fu venduta a Rcs e le cose andarono bene fino a quando non decisero di mettere in vendita la rivista, calcolandone il valore secondo il metodo di Guatri, un economista che aveva ideato un metodo per valutare le aziende…un metodo del cazzo (testuali parole ndr). Noi avremmo voluto comprarla, ma ci chiesero 1 miliardo e mezzo di vecchie lire. Zeta invece fu un passo falso, avremmo dovuto puntare sulle console e la Playstation, ma oramai era tardi e mi dedicai al Fantacalcio prima e al Sudoku poi.

K era una rivista molto all’avanguardia dal punto di vista grafico e dei contenuti…

La grafica era ispirata a quella di ACE, rivista inglese della quale detenevamo i diritti, ma la rivista era scritta quasi tutta in Italia. Sia ACE che K erano destinate ad un pubblico adulto. Io allora avevo 40 anni e volevo fare una rivista che piacesse anche a quelli della mia età. Ai tempi eravamo un po’ spocchiosi, infatti dicevamo peste e corna di TGM. Lì leggevi le recensioni e c’era il redattore che per più di metà del testo parlava dei cazzi suoi. Però ai ragazzini piaceva…

Tant’è che TGM oggi è arrivata a 265 numeri ed è una delle riviste di videogiochi più longeve della storia a livello mondiale…

Adesso andrà in tilt e ripartirà in loop come Pac-Man (ride). Scherzi a parte, eravamo in anticipo sui tempi.

Rimpiangi quel periodo?

No, ma è stato un bel periodo. Video Giochi non era solo una rivista ma un Manifesto dei videogiocatori. I videogiochi erano maltrattati da tutti: genitori, media, quelli che non giocavano, altri giornalisti di informatica. Eravamo una comunità che si difendeva e faceva squadra. La prova era l’Angolo della posta. Ci arrivavano migliaia di lettere al mese, alcune delle quali davvero assurde: uno ci mandò 12 pagine vergate a mano con la soluzione di Pitfall!, un altro scrisse un trattato su Defender da morir dal ridere. Tutti i nostri vecchi lettori ci ricordano ancora oggi, c’è un senso di appartenenza fortissimo, irreplicabile con altre testate. Ai tempi eravamo molto noti, specie all’estero e soprattutto in Gran Bretagna. A proposito, Julian Rignall era davvero un bravo giornalista.

Giochi ancora?

Sono diventato un casual gamer, gioco con l’iPad mentre i miei figli di 10 e 12 anni sono decisamente “addicted”. Come genitore li tengo d’occhio e non mi faccio fregare. Capisco la loro esigenza di “finire una partita”, ma non gli compro certo GTA o Red Dead Redemption, mentre molti compagni di classe di mio figlio, che frequenta la seconda media, ci giocano assiduamente. Il limite d’età nella vendita di videogames è la cosa meno controllata in assoluto perché c’è ancora enorme ignoranza su questo argomento. La rovina dei  videogiochi è stato il loro nome. Li ha sempre relegati in un ghetto, come se fossero cose per bambini. Chi non li conosce non pensa che possano esistere giochi “vietati ai minori”.

Ultima domanda: che ne sarà delle riviste cartacee?

La storia del mondo è piena di cose che c’erano e ora non ci sono più. I tablet sono più pratici e comodi e forse sostituiranno i giornali cartacei, ma i bravi giornalisti serviranno sempre.
Che fare quindi per preservare la memoria di una delle riviste più importanti degli ultimi trent’anni? Passarle allo scanner e metterle su internet, ovviamente. Questo è l’obiettivo (completato da poco) che ha raggiunto il sito www.retro-gaming.it, sul quale tutti coloro che non hanno vissuto quel periodo, potranno capire come si scrivevano le recensioni all’alba dei videogiochi e quelli che c’erano… beh, verseranno una lacrimuccia pensando al tempo che scorre veloce.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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