All’apparenza quasi completamente derivativo, Dishonored rivela ad un esame più attento sia degli elementi di eccellenza – in quei casi in cui pesca da autorevoli ispiratori – sia un arrangiamento raffinato. Difficile non essere colti da déjà vu a fronte delle numerose eredità: lo stile dei personaggi da Bioshock, quello degli ambienti da Half Life 2, la struttura di gioco da Deus Ex; persino la trama, o forse sarebbe meglio parlare del suo andamento, è in linea con il primo Assassin’s Creed.

Al di là di questa sensazione, dettata peraltro dal fatto che molti artisti – Viktor Antonov e Harvey Smith su tutti – hanno lavorato ad alcuni dei titoli menzionati, se si tenta di descrivere le caratteristiche generali del prodotto, saltano subito all’occhio importanti particolarità. Innanzitutto l’ambientazione storica, sebbene giochi con elementi contraddittori, li collega in un tutt’uno molto coeso.

L’imperante presenza e incombenza della peste – collegata all’ambientazione europea – è seicentesca; la caratterizzazione e il vestiario sembrano invece settecentesche, mentre dall’ottocentesco Moby Dick di Herman Melville il titolo eredita la centralità delle balene, qui usate come espediente tecnologico, dato che le apparecchiature avveniristiche, che fondano l’affascinante universo steampunk, sono alimentate grazie a un particolare olio derivato dai mammiferi marini.

Contrariamente a quanto si legge in giro, inoltre, l’elemento centrale di questo Dishonored non è né lo stealth, né l’azione, né la trama; si tratta invece di un altro animale, questa volta molto meno affascinante dei giganteschi cetacei: l’elemento centrale di Dishonored sono i topi. Oltre a essere presenti in quantità esagerata, e valorizzati sia in maniera positiva che negativa, ai roditori spetta il compito di mediare tra le tre componenti fondamentali di cui sopra, fuse attorno ad un progetto artistico di rara eleganza.

Prima di tutto sono il presupposto narrativo fondamentale del prodotto, dato che il mondo di gioco è un mondo dilaniato dalla peste, epidemia, come si sa, scatenata proprio dalla categoria dei roditori. In secondo luogo, sono un elemento fondate del gameplay, al di là dello stile che si decide di utilizzare. Nel caso di un approccio stealth, tramite l’opportuno acquisto del potere corrispondente, è possibile impossessarsi del corpo  di un esemplare e avanzare inosservati; quanto invece a una condotta più action, un altro potere permette di radunarne una numerosa schiera e di scatenarla contro i nemici, che verranno letteralmente sbranati dal branco.

Inoltre, quest’ultimo elemento, oltre a poter essere sfruttato a proprio vantaggio, influenza a sua volta la scelta riguardo il proprio stile ludico, perché uccidere i nemici anziché tramortirli si ripercuote sul mondo di gioco, sulle missioni successive e persino sul finale. Seminare morte per le strade si traduce nella moltiplicazione di infetti e di roditori, che ci attaccheranno a vista: si tratta di un efficace espediente per dare l’illusione che il comportamento del giocatore abbia delle conseguenze narrative importanti, oltre che di larga portata.

Più in generale, le soluzioni utilizzate per restituire un mondo malato e sporco sono perlopiù fuse con l’ambiente. Diari e messaggi disperati (un esempio banale: “Send us food, no bullets”), stanze murate, corpi nascosti e bruciati, quartieri inferiori dismessi: si tratta di un tentativo molto raro, dopo la saga di Portal, di narrare spazialmente, strategia passata decisamente inosservata, dato che la critica ha inteso la trama del titolo come deludente, considerandone però solo i colpi di scena e i dialoghi scriptati.

A contraddistinguere però il titolo tra gli altri, soprattutto quelli, come la saga di Deus Ex, con cui condivide la struttura di gioco, più che elementi innovativi, sono alcune interessanti soluzioni. Innanzitutto i poteri, anche qui migliorabili previo ritrovamento di specifici artefatti, hanno un entroterra magico-mistico piuttosto che tecnologico; la Traslazione, ad esempio, direttamente derivata da questa direzione paranormale, si inserisce perfettamente nel design verticale dei livelli, scongiurando peraltro il pericolo di un ritmo di gioco blando, forse il vero problema degli stealth game.

In secondo luogo, non c’è qui un mondo unitario, ma l’avanzamento si divide invece in missioni, sebbene situate in terreni di gioco molto generosi, sia in termini di ampiezza che di caratterizzazione. Questo espediente permette di non disperdere le energie di grafici e sceneggiatori in un’unica enorme ambientazione, in cui per distinguere un elemento importante da uno secondario si è costretti ad utilizzare indicatori di vario genere, anche qui presenti in gran quantità ma di cui consigliamo la disattivazione.

L’edificio principale di ogni missione è sempre attorniato da chiari punti di interesse, molteplici vie d’accesso e personaggi sopra le righe; esempi eccellenti di questa struttura sono la residenza dell’Alto Sacerdote, la casa di piacere, e la festa in maschera. Infine, alcuni accorgimenti esaltano la riuscita complessiva, soprattutto il modo in cui queste componenti vengono mescolate, mettendo sempre al centro il giocatore e le sue scelte, grazie a una lunga serie di situazioni ordinate gerarchicamente, che permettono di risolvere in molteplici maniere i propri compiti.

La discreta gamma di personaggi secondari non si limita, se interpellata, a suggerirci modi alternativi di finire i nostri nemici: nella maggioranza dei casi saremo noi a dover origliare queste rivelatorie conversazioni e tentare di sfruttarle a nostro vantaggio nei momenti cruciali; altre volte le indicazioni saranno più dirette, magari in quei casi in cui  i detti personaggi reclameranno il possesso del nostro avversario, permettendoci di evitare l’omicidio in favore di più diplomatiche risoluzioni. Il punto centrale rimane però l’articolazione tra queste possibilità, situate in ambienti eterogenei – il suggerimento può venirci tanto da due soldati in ronda esterna, tanto da una cameriera nello sgabuzzino, che da una prostituta scontenta – e che sfocia in situazioni intriganti sia a livello narrativo che ludico.

Nel quadro generale non mancano ovviamente alcune ombre: a volte i nemici si comportano in maniera superficiale, evitando ad esempio di controllare un apparecchio a cui abbiamo appena tolto l’alimentazione sotto i loro occhi; e in generale alle già citate situazioni mondane delle prime missioni si sostituiscono, verso la fine,  livelli generalmente meno caratterizzati e ispirati; ma complessivamente, Dishonored è una perla che merita di essere giocata e rigiocata, almeno per tentare di afferrarne la complessità ludica e narrativa in ogni sua sfumatura, oltre a rappresentare, già da ora, uno dei più seri pretendenti al titolo di miglior gioco dell’anno.



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4 Comments

  1. Ammetto di essere particolarmente affascinato dall’ambientazione cyberpunk/vittoriana, ma per me è nettamente “game of the year”. Sono alla terza run e non ho mai risolto una missione nello stesso modo.

  2. Io sono alla seconda, e di solito non apprezzo molto i giochi con elementi stealth, ma qua hanno fatto proprio un gran lavoro.

    1. Quali elementi stealth? Io elimino qualsiasi essere vivente mi si pari contro…:-)

  3. Finalmente qualcuno che coglie il superbo lavoro di show don’t tell “videoludico” del titolo! Tutti a guardare quei cazzo di dialoghi scriptati e le pochissime cut scene, nelel altre recensioni :P

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