L’ucronia, ovvero quel genere letterario a cavallo stra storia e fantascienza che immagina un diverso scorrere degli eventi a partire da un singola differenza rispetto a quanto realmente accaduto, ha origini decisamente antiche. Nonostante questa forma di esercizio letterario fosse già nota ai tempi dell’Impero Romano – Ab Urbe Condita di Tito Livio ne è considerato il primo esempio – e con la seconda metà del ‘900 che la sua popolarità si diffonde.

La Seconda Guerra Mondiale è snodo fondamentale della storia umana e infinita fonte di ispirazione per futuri alternativi in cui un diverso esito del conflitto ha condotto le vite della popolazione umane verso destini profondamente – e a volte tragicamente – differenti. Come la programmazione di History Channel però, anche l’ucronia è rimasta per troppo tempo legata al nazismo e alle suo sorti: le possibilità offerte da un simile azzardo del pensiero sono troppe, e troppo interessanti, per legarle a doppio filo a un solo, tragico periodo della storia umana.

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Ogni epoca, potenzialmente, si presta ad essere un ottimo spunto ucronico, persino quella che viviamo oggi: basta sempre introdurre un dettaglio anche piccolo per cambiare tutto. Una backdoor informatica , ad esempio: quella immaginata da Homefront: The Revolution come cavallo di Troia della Corea del Nord, divenuta prima il principale produttore mondiale di tecnologia e poi una forza di invasione sui resti dell’occidente privato di ogni arma più potente di una fionda con un semplice click.

A ben vedere però, anche di fronte all’azzardato scenario appena descritto, l’ucronia più folle e ardita di Homefront: The Revolution è quella di immaginare un presente in cui gli shooter singleplayer sono ancora il perno su cui poggia l’industria, prodotti che smuovono milioni di copie, decidono le sorte della console war e si contendono le copertine delle riviste cartacee – sì, nella mio ucronia la principale fonte di informazione dei videogiochi sono ancora le riviste da edicola – e comportarsi di conseguenza. Se le cose fossero andate così oggi Homefront: The Revolution sarebbe l’equivalente di Destiny o The Division, mentre DooM sarebbe il suo più serio rivela per il monopolio delle classifiche de prossimi mesi.

Invece, come purtroppo sappiamo, le cose sono andate diversamente, e oggi è impossibile giocare a shooter senza doversi sorbire in cuffio un tredicenne dall’altra parte del mondo che ti assicura di essersi appena goduto un pratica sessuale che non hai mai sentito nominare con tua madre. È il progresso, baby, e a farne le spese non è stata solo la mia capacità di godermi un po’ di sano relax davanti a un FPS, ma anche il processo produttivo di Homefront: The Revolution, travolto prima dal tracollo di THQ e deragliato poi una seconda volta dopo il salvataggio di Crytek per finire tra le braccia di Deep Silver.

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Giocandolo oggi sembra davvero di avere tra le mani un what if, un esemplare uscito da un percorso parallelo del progresso del genere, lontano dai corridoi story-driven bellici più simili a laser game che a un first person shooter, ma parente solo alla lontana della narrativa di Half-Life e seguiti. Il caso vuole che Homefront arrivi a beve distanza da un altro glorioso inno al FPS che fu, quel DooM rebootato da Bethesda. Ma al di là del loro essere “fuori dal tempo” e figli  un’altra epoca, i due giochi sono più diversi di quanto possa sembrare.

Nonostante una fase introduttiva che sembra condurre altrove, verso un percorso fatto da cut-scene e corridoi da percorre in senso obbligato, la Philadelphia occupata dai nord-coreani di Homefront presto si offre interamente come campo da gioco attraversabile da cima a fondo, a patto tuttavia di avere l’accortezza di rispettarne le regole. Quella in corso è pur sempre una guerra e benché i Norks – appellativo affibbiato al nemico che trasuda sì razzismo, ma costruisce un intero immaginario con una sola parola – stiano vincendo senza particolare sforzo, aggirarsi indisturbati per strada sotto l’occhio vigile dei droni non è un’idea saggia.

Diverso è dunque l’atteggiamento da tenere nelle diverse aree della città. Le zone rosse, militarmente occupate dalle forze nord coreane, sono luoghi di in cui lo scontro a viso aperto si scatena al primo avvistamento in un continuo emergere di Norks da ogni edificio fino al raggiungimento dell’obiettivo della missione. Ben più esaltanti da giocare invece si rivelano le zone gialle, aree cittadine ancora popolate da civili sottomessi. Nemmeno qui si può pensare di aggirarsi in totale libertà, perché la tecnologia nord coreana è in grado di riconoscere abbastanza velocemente il nostro volto come quello di un combattente appena giunto tra le fila della resistenza, ma usando l’accortezza di non camminare ad armi spianate in pubblico e tenendo gli occhi aperti in cerca di droni in grado i riconoscerci ci si può muovere con relativa tranquillità.

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La conformazione urbana, per quanto non eccessivamente varia, consente in ogni caso di improvvisare nel contesto delle zone gialle percorsi  che si snodano attorno, attraverso o sopra gli edifici cittadini, restituendo il brivido della guerra clandestina, della guerriglia che si combatte nell’ombra con l’obiettivo di risvegliare i cuori e le volontà sopite degli abitanti di Philadelphia, riconquistando la libertà metro dopo metro fino a spingere anche i civili ad opporsi al nemico ed unirsi alla rivolta. Una metafora rafforzata da una sorta di termometro che misura lo stato d’animo della popolazione e il ribollire dell’insofferenza verso la presenza nemica per le strade, da aizzare tuttavia raggiungendo una serie di obiettivi troppo simili tra loro e quasi tutti connessi alla manomissione di una radio.

Sono numerose, purtroppo, le situazioni in cui sotto un impianto di gioco apprezzabile, che prova quantomeno spesso a imboccare una strada propria rifuggendo orgogliosamente di ripercorrere sentieri tracciati da altri, emergono i postumi di una lavorazione travagliata, fermata e ripartita più volte sotto un nuova bandiera – e probabilmente con nuove direttive. A pagarne le conseguenze peggiori è l’IA degli NPC. Generalmente il gioco prova a compensare la scarsa lucidità dei nemici con uno spawn ininterrotto di soldati nelle zone rosse, la classica toppa peggiore dello strappo. Ancora più irritante poi sono i momenti di totale black out dei nostri commilitoni, vittime improvvise di colpi di sonno che li piantano fantozzianamente davanti ai passaggi più stretti, impedendoci di proseguire e lasciandoci alla mercé dello sciame di soldati che costantemente ronza intorno alla nostra squadriglia. Certo le perdite in termini di materiali in questi frangenti sono estremante ridotte, ma costringere il giocatore a dover ripartire da capo dall’ultimo rifugio sbloccato perdendo tutti i progressi della missione senza averne colpa non è il modo migliore farsi amare da un gioco.

Pur con tutti i suoi difetti, spesso pacchiani ed evidenti, Homefront: The Revolution ce la mette però tutta per mostrare appena gli è possibile qualcosa di nuovo, o quanto meno ammantato di una consapevole ricerca di originalità, come il trittico d’armi in dotazione completamente modificabile in una miriade di dettagli, al punto da rendere difficile la possibilità di condivider due configurazioni identiche con un altro giocatore. E quando non può, semplicemente opta per la quantità, rimpolpando il gioco di missioni principali e secondarie, a volte interconnesse tra loro, che richiedono decine e decine di ore per essere concluse ed assistere al finale, e impegnandosi nella costruzione di un universo narrativo stimolante.

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Non si possono negare difetti, errori, scivoloni e grossolanità in cui il gioco incappa, anche sul versante della narrazione, ma ho la sensazione che le ingenerose valutazioni presso la critica di cui ha goduto Homefront: The Revolution ne abbiano sottostimato il coraggio e la portata delle scelte controcorrente, la cocciutaggine di fare di testa propria e sbagliare, anche azzardando azzardando, ma sempre senza rimescolare concetti stra-abusati illudendosi che il risultato posso anche solo sembrare qualcosa di nuovo. Emblematica e contraddittoria, in questo senso, la volontà di rimanere legati al nome di Homefront, un brand universalmente riconosciuto come fallimentare, nonostante questo secondo capitolo non abbia quasi nulla in comune col primo. Forse un segno di umiltà, l’ammissione dei propri sbagli quando ancora una volta sarebbe stato più facile nascondersi dietro un titolo confezionato ad hoc.

Poche sono le rivoluzioni che hanno successo, ancora meno quelle che riescono a cambiare davvero qualcosa, e quella di Homefront: The Revolution difficilmente passerà alla storia per i suoi successi, ma è solo dopo il fallimento che ci si rende conto di quanto fosse necessaria una rivoluzione.

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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