Sulla carta, da una serie che possa vantare due pezzi da novanta come Dennis Quaid (Traffic, Any Given Sunday) e Micheal Chiklis (The Shield) nei due ruoli principali viene naturale aspettarsi un prodotto in grado di imporsi fin da subito nella nuova stagione televisiva a stelle e strisce. Aggiungiamoci un’ambientazione nella Vegas dei primi ’60, istante sospeso nella storia in cui la futura città del peccato ancora non si era liberata del suo passato dando vita a una flebile e innaturale convivenza tra ranch e alberghi di lusso, e la storia di un cowboy che finisce per rappresentare la legge mentre i signori del crimine italo-americano stanno per spartirsi la città. A questo punto manca solo un pilot convincente per trasformare le aspettative in certezze.
È proprio questo il momento in cui Vegas torna coi piedi per terra. Non che il pilot risulti particolarmente mal diretto, anzi dietro la camera da presa James Mangold – già regista di 3:10 to Yuma– fa un buon lavoro nell’incorniciare un’atmosfera da western anomalo, è piuttosto la formula fortemente procedurale che emerge a smorzare un entusiasmo forse alimentato immotivatamente. Tenuto conto il procedurale poliziesco è uno di quei format su cui la CBS ha costruito le sue fortune era da sognatori immaginare che questo Vegas potesse discostarsi eccessivamente dalla formula magica del successo garantito, quel che ci si poteva aspettare era un esordio in grado di sorprendere per originalità e freschezza grazie anche alla personalità dei personaggi – e degli attori – in campo.
Il caso della settimana invece è quanto di più tipico ci si possa attendere e scorre placido attraverso il consueto balletto di sospetti, testimoni, interrogatori, indizi scovati più o meno casualmente e una certa qual dose di forza bruta. Nulla di nuovo su questo fronte insomma.
L’aspetto più interessante della serie per il momento va ricercato dunque da un’altra parte, ovvero nella lotta tra il futuro che cerca di imporsi e un passato che non ha nessuna intenzione di lasciar strada facilmente, espressa attraverso un felice ricorso al simbolismo, a partire dal più evidente incarnato due protagonisti, il burbero mandriano Lamb (Quaid) e il mellifluo gangster Vincent Savino (Chiklis). Il contrasto però funziona su più livelli, fin dalla prima scena in cui l’atterraggio di un aereo sconvolge il placido pascolo del bestiame e prosegue più o meno esplicitamente per tutto il corso dell’episodio, in bella vista quando si tratta di un inseguimento tra una moto e un cavallo, più oscuro quando contrappone le tecniche di investigazione del cowboy, che tengono conto del tempo passato tra un giorno di pioggia e la comparsa dei fiori di campo, e le strategie di depistaggio basate sulla sparizione dei libri contabili.
Trattandosi di un western, per quanto peculiare, non si può sfuggire alla mitizzazione della figura del cowboy, che passa in questo come in molti altri casi attraverso un’accettazione tutto sommato positiva delle maniere rudi, quando non di quelle forti, dei modi di fare sbrigativi, della manualità in sostanza contrapposta all’intelletto. Questo sottotesto assume però in questa occasione un suo senso proprio nel contesto di contrapposizione su cui gioca la serie la Vegas dei ’60 pare portare in se i semi dei male dell’America moderna, un paese diviso tra corporazioni di contabili criminali e una mentalità retrograda per cui un fucile è sempre meglio di un libro se si è in cerca di giustizia.
Al di là degli spunti di riflessione tuttavia il pilot non riesce a far intravedere un futuro roseo per la serie, incapace da quel che si è visto di offrire una novità di qualche tipo al consueto canovaccio del procedurale poliziesco che la possa far spiccare in mezzo ai numerosi altri esponenti della categoria premiati dal successo di pubblico (CSI) o di critica (The Good Wife).
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Visto anche io il pilot: perfettamente d’accordo, mi sembra un’occasione sprecata già da ora; senza contare che il tutto mi pare dalle parti di Walker Texas Ranger, con tutto il rispetto.