Dopo tre anni di trasmissioni, la serie TV The Newsroom, un dramma ambientato nella redazione del canale televisivo immaginario ACN, si è conclusa. Il creatore/scrittore Aaron Sorkin, dopo aver influenzato la politica con The West Wing e aver raccontato l’intrattenimento con Studio 60 on the Sunset Strip, ha preso di petto il mondo dell’informazione, con un racconto che ha cercato di raccontare una versione idealizzata di quello che il mondo delle notizie potrebbe essere, e una critica su quello che è, oggi.

Dopo due anni in cui ogni episodio della serie ha raccontato uno degli eventi più importanti della cronaca degli ultimi anni sotto l’occhio della redazione immaginaria di News Night, guidata dai brillanti Will McAvoy e MacKenzie McHale, l’ultima, breve stagione della serie si è concentrata su un’unica storia ispirata al caso Greenwalt/Snowden, che ha visto i protagonisti della serie hanno affrontato il carcere, l’umiliazione, dolore e morte pur di difendere la propria idea di servizio pubblico, la loro missione di raccontare il mondo a costo di far infuriare i poteri forti. È una visione romantica del mondo che è sempre meno comune: Will è disposto a tutto pur di difendere l’integrità della sua redazione, anche idee a cui lui stesso si oppone. Come da sempre nella narrativa di Sorkin, il marchio distintivo è la mancanza di cinismo, e un’attenzione maniacale all’importanza dei princìpi.

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Ma Sorkin è un cinquantenne, è una voce piuttosto distante dalla stragrande maggioranza delle firme che popolano i siti più popolari della rete, da The AV Club a /Film passando per Buzzfeed, The Daily Beast o Indiewire, per non parlare dei nuovi fenomeni come Buzzfeed. La serie di Sorkin non ha risparmiato critiche verso la superficialità di un certo tipo di giornalismo online, quello più attento a attrarre traffico e click a scapito della precisione delle informazioni. Di conseguenza, le reazioni dei maggiori siti online a The Newsroom sono state tutt’altro che generose. Sotto attacco, accusati di pressappochismo, superficialità, mancanza di professionalità e di idee, i siti specializzati di critica online hanno reagito trattando la serie di Sorkin con un malcelato disprezzo, del tipo riservato ad un autore difficile da ignorare, forte di Emmy, Oscar e di alcuni lavori intoccabili nella sua carriera, ma pur sempre qualcuno che li sta attaccando, che li considera, spesso, come dei bambini viziati. Ogni possibile scivolone dell’autore è così stato usato per attacchi più o meno diretti, incentrati sulla sua incapacità di capire il mondo della rete, il suo snobismo.

Uno dei casi più interessanti in questo senso ha coinvolto il penultimo episodio della serie, Oh Shenandoah, nel quale i giornalisti di News Night si sono trovati ad affrontare il caso di uno stupro in un campus universitario: il nuovo proprietario del network ACN chiede alla redazione di portare sullo schermo un incontro tra il ragazzo accusato di stupro e la sua vittima, ma i nostri eroi fanno di tutto per evitare che questo succeda, preoccupati dalla possibilità di uno scontro violento e controproducente per entrambe le parti.

Durante questi tentativi, uno dei protagonisti cerca di convincere la giovane donna che ha subito lo stupro a non creare un sito specializzato nel rivelare le identità dei ragazzi che si macchiano di stupro. I motivi della ragazza sono semplici da capire: vuole vendetta, ma anche un modo per creare un deterrente perché episodi del genere si ripetano in futuro, un sentimento comprensibile vista la frequenza degli abusi nel mondo delle università USA. Ma il giornalista le presenta motivi per non mettere in pratica il suo piano: il sito potrebbe essere abusato, malintenzionati potrebbero usarlo per accusare innocenti, e rovinare la vita di giovani ragazzi, per sempre. Lui stesso, in mancanza di prove concrete, non può dare per scontato che lei, la vittima, abbia ragione. I principi del suo lavoro gli impongono di considerare la possibilità che stia mentendo, per quando sia evidente a lui stesso che in questo caso sia assai remota.

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Sono entrambe posizioni ragionevoli, umane, e il dialogo mette in scena la capacità di Sorkin di dare voce a posizioni diverse, così che entrambe possano esprimersi in maniera intelligente, complessa, per dare il senso di quanto il mondo sia complicato e pieno di sfumature, di quanto spesso la soluzione migliore sia un compromesso. Ma sotto la lente di alcune recensioni di spicco l’episodio è diventata una delle “ennesime dimostrazioni” della misoginia di Sorkin, e della sua incapacità di affrontare il reale. Secondo questi articoli, la posizione “giusta”, quella a difesa della vittima, doveva essere l’unica presente, doveva essere inequivocabilmente indicata come tale.

È uno dei tanti sintomi di una sindrome (che si spera passeggera) che sta attraversando il giornalismo online, soprattutto negli USA: scrittori giovani, per lo più educati in università liberali, criticano la cultura sotto una lente che deriva dalle sensibilità dei ricchi campus da cui sono usciti. A leggere /Film, The AV Club, The Dissolve e molti altri siti di questo tipo (che spesso, per essere chiari, offrono ottimi contenuti), si trovano molti articoli dove la critica della qualità artistica di un’opera è messa in secondo piano rispetto al modo in cui l’opera stessa si rapporta ad un ideale platonico di quello che gli autori considerano un modo giusto di raccontare il mondo. Le recensioni e i saggi così diventano liste di critiche che riguardano aspetti apparentemente sessisti, razzisti e insensibili delle opere. Secondo questa visione, l’aderenza ad una specifica visione del mondo, progressista e liberal, sembra essere più importante della qualità dell’opera stessa.

Questo approccio ha radici in un sentimento nobile, che vuole vedere un mondo dove le minoranze sono più rappresentate, dove le donne possono andare oltre l’evidente disparità che soffrono rispetto agli uomini nei posti di lavoro, e nella società civile. L’obiettivo dichiarato è quello di spingere il mondo della cultura ad essere più sensibile, più vario, più giusto. Ma questo tipo di approccio ignora il modo in cui gli autori raccontano storie: molte dei migliori racconti, vengono da esperienze personali, da osservazioni del mondo, da sensibilità uniche. Gli artisti migliori non creano quasi mai opere per aderire ad una causa, quello è un approccio che spesso crea mostri (Alan Parker ha fatto capolavori, ma il suo film sulla pena di morte, The Life of David Gale, è terrificante, nonostante le evidenti buone intenzioni). Gli autori vogliono raccontare un mondo complesso, vogliono colpire al cuore, non soddisfare una visione di “giusto”. Gli autori vogliono spesso provocare, e capiscono l’importanza di offendere, anche quando questo comporta rischi, come nel caso dei lavori di Trey Parker e Matt Stone, del nuovo The Interview, dell’arte rozza e spesso completamente idiota di Charlie Hebdo, non per questo meno importante.

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In Italia abbiamo osservato questo fenomeno da decenni. Il nostro mondo culturale, in grandissima maggioranza di sinistra, se non dichiaratamente “comunista” (all’italiana), ha per decenni criticato il cinema attraverso la lente dell’impegno e del conformismo all’ortodossia del socialismo borghese nostrano, snobbando moltissimo cinema straordinario per mancanza di impegno. Questo approccio, associato ad un meccanismo produttivo che dalla fine degli anni ’70 ha reso fondamentali i finanziamenti pubblici per la salute del nostro cinema, ha dato vita alle centinaia di film mediocri, ma ben intenzionati, che hanno inondato la nostra cinematografia. Dove fare un film socialmente impegnato è diventato un sinonimo di film “di qualità”, a prescindere dalla bravura dietro alla realizzazione del film, e all’efficacia dell’opera, la sua capacità di coinvolgere gli spettatori, la forza espressiva, l’onestà intellettuale. La televisione e il cinema negli USA hanno in gran parte evitato questa trappola, e hanno raramente confuso la posa di chi vuole atteggiarsi a serio con la serietà, il divertimento e la leggerezza con la superficialità.

La speranza è che i giovani critici delle (spesso ottime) testate online vadano oltre queste ossessioni e le mettano in prospettiva, perché finiscono per dare ragione ai sospetti di Sorkin, alle accuse di superficialità, di assenza di etica, di mancanza di integrità rispetto a quella che dovrebbe essere la missione di un giornalista: raccontare la realtà, essere un barometro, non un crociato. Dare priorità ai principi professionali, alle regole del gioco, per accertarsi di non cadere nel tranello di abbandonare l’etica professionale per dare forza ad una causa a cui si crede. Anche perché questo atteggiamento, alla lunga, rischia di danneggiare le cause che supporta, di dare fuoco alle accuse delle centinaia di trogloditi che hanno supportato il Gamergate e inondano YouTube di commenti razzisti, sessisti e intolleranti. La soluzione a questi problemi non è l’ansia di dimostrare continuamente la propria purezza, ma fare il proprio lavoro bene, con integrità, e prendersi le proprie responsabilità quando lo si fa. In questo senso The Newsroom, e tutta l’opera di Sorkin, continuano ad essere un ottimo modo per ricordare cosa sia importante. Non essere perfetti, ma avere passione; non essere cinici, ma avere un solido senso della realtà; non pensare che il prossimo sia stupido perché la pensa in maniera diversa da noi, ma non per questo abbassare la voce quando si è appassionati.



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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