Dopo la fugace comparsata nelle sale – dove sembrerebbe, per dimensioni estetiche e di durata, perfettamente a suo agio – arriva pigiato sul piccolo schermo l’ultimo film di Martin Scorsese, un lungometraggio della durata di tre ore e mezza che si fa fatica ad apprezzare in ogni suo dettaglio e in ogni sua sfumatura, ma di cui si gode ogni sacrosanto minuto.

The Irishman – questo il titolo della mastodontica produzione targata Netflix – è un prodotto assolutamente coerente rispetto alla filmografia di Scorsese e, per quanto classico nella struttura della sceneggiatura (dilatata, ma perfettamente in linea con la lunga parabola discendente di Quei bravi ragazzi (Godfellas, 1990) e nella cura della messinscena (che dialoga con lo spettatore attraverso le luci e le ombre di una fotografia elegante e voluttuosa), appare inconsueto – e paradossalmente adatto alla dimensione televisiva – nel suo cedere un tratto essenziale della poetica scorsesiana, ossia l’epica dell’antagonismo. Qui, e forse per la prima volta, il mafioso non conosce la magniloquenza della sua viltà, l’ascesa verso gli inferi che insieme lo celebrano e lo condannano in un eterno castigo.

Diversamente da Henry Hill (Ray Liotta) che si avvicina alla platea virtuale, guarda in macchina e si rintana nella sua villetta dopo che ha tradito i suoi vecchi amici, Frank Sheeran (Robert De Niro) non conosce fine (gloriosa o ingloriosa), non lo attendono sipario e fischi, ma può solo apprezzare la tragicità della sua vecchiaia, con i soli ricordi a fargli compagnia, mentre amici e parenti o sono morti o si sono allontanati per sempre. Una porta resta socchiusa e un anziano di spalle, in quello che potrebbe essere un camerino di teatro, aspetta che qualcuno torni a reclamarlo e ad acclamare le sue gesta.

Questo approdo al dietro le quinte – insolito nel cinema di Scorsese che tende invece a chiudere le sue storie sulla ribalta – proprio lì dove si spengono i riflettori, ci si strucca e si torna a fare i conti con se stessi, sembra suggerire il ritorno a una dimensione normalizzata dell’esistenza, dove anche il mafioso che ha conosciuto e collaborato con i pezzi grossi di un’epoca, e che forse quell’epoca l’ha pure segnata, torna ad essere un uomo qualunque, un anziano malato che nessuno ascolta più e che altro non può fare che osservare cantieri, fossero anche quelli di palazzi che nei piloni nascondono cadaveri.

The Irishman, come tutti i film di Martin Scorsese, mette in scena l’epopea dettagliata e coinvolgente di un uomo e dei compari che ne hanno decretato il successo e il fallimento, ma a differenza di quelli manca di vitalità e simultaneità, rinuncia all’ansia della provvisorietà, sostituendoli con un greve senno di poi offerto da uno sguardo presente che si rivolge al passato. Per questa ragione il formato televisivo appare quantomai idoneo alla visione di The Irishman poiché limitando le aspettative narrative – i turning point sono quasi del tutto assenti – e modulando gli accadimenti d’impatto sulle ondulatorie e ipnotiche frequenze televisive – che instaurano un ritmo placido e rivocativo – l’epos della messinscena risulta stemperato e ridimensionato.

Non si tratta, perciò, di una complessa e appassionante storia (vera) di ingerenze mafiose nella politica americana degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, bensì un amarcord amaro – pieno di facce ringiovanite dagli effetti (dei ricordi), ma anche di corpi palesemente e realisticamente macilenti – un gangster movie oltre-crepuscolare dove la memoria e l’immaginario cominciano a svanire e il bene e il male si confondono fino ad affogare in un’oscura indifferenza. Da non perdere.



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