Il percorso artistico di Jane Campion – classe 1954, neozelandese di nascita e australiana d’adozione – è passato attraverso i toni e i generi. Dalla storia vera della scrittrice Janet Frame erroneamente considerata schizofrenica in Un angelo alla mia tavola all’Oscar e alla Palma d’oro (prima donna a ottenerla) vinti per Lezioni di piano. Dall’adattamento mozzafiato di una pietra miliare della letteratura come Ritratto di signora di Henry James (forse il suo film più ingiustamente sottostimato) al sovraeccitato Holy Smoke. Da un thriller sui generis che non segue le regole del giallo come In the Cut fino al suo penultimo lungometraggio per il cinema, il toccante e intimo Bright Star.

Dodici anni dopo, la Campion sceglie il Far West: adatta il romanzo di Thomas Savage The Power of the Dog. Facendo saltare ancora una volta i codici di genere.  

Niente europei in cerca di riscatto o echi della Guerra di secessione, né scontri con i nativi americani: l’Ottocento si è chiuso da un pezzo, siamo nel Montana degli anni Venti in cui le automobili hanno ormai sostituito le carrozze. I fratelli Burbank mandano avanti il florido ranch di famiglia. Phil (Benedict Cumberbatch) è rozzo, sporco, violento: incute timore più che sedurre con il carisma. George (Jesse Plemons) è pacato e riflessivo, per molti versi l’opposto. Quando l’arroganza di Phil offende la giovane vedova Rose (Kirsten Dunst) bullizzandone a parole l’efebico figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), George si intenerisce andando oltre le scuse: la sposa e la porta a vivere nella casa di famiglia.

The power of the dog

L’antipatia fra cognati – il grezzo mandriano non sopporta la timida bionda che ha impalmato il fratello – non esplode ma consuma lentamente lei che si attacca alla bottiglia: le sue ansie renderanno più insistente il muto, sottile accanimento di lui. Finché le vacanze scolastiche non portano Peter a casa: di fronte all’apparente ingenuità del ragazzino che i cowboy della zona chiamano “femminuccia” Phil cambia improvvisamente atteggiamento.

La narrazione filmica si prende i suoi tempi: The Power of the Dog non svela le sue intenzioni. La Campion dilata tempo e spazio: allo sguardo della camera che abbraccia i campi e le colline investite di luce biancastra la regista abbina tempi narrativi che non hanno fretta e che usano i silenzi.

Anche qui la protagonista femminile suona il pianoforte. Ma senza il magnetismo della Ada di Lezioni di piano: è un’esecutrice mediocre, che strimpella la Marcia di Radetzky di Strauss senza riuscire ad andare oltre poche battute, per fermarsi e provare a correggere gli errori. Phil le fa il verso col suo banjo improvvisando con maestria inibente, oppure fischiettando il motivo dietro i vetri. Snervando Rose oltre misura. La poverina non regge questa specie di gioco del gatto col topo.

Così le vere tensioni umane transitano, forse per la prima volta nell’universo di Jane Campion, interamente verso l’universo maschile. Rose è una sorta di vittima che la vita ha reso troppo fragile. Ma i veri climax emotivi triangolano fra Phil, George e Peter. Le divergenze fra i fratelli vengono ritratte con tormentato verismo. E sono il grossolano allevatore e il delicato ragazzo a rendere l’atmosfera densa di non detto: la Campion indulge al piacere del racconto senza preoccuparsi dell’esplicito, annuendo, lasciando sottinteso ciò che ogni semi-rivelazione autorizza ad attendere.

The Power of the Dog gioca con i contrasti, non solo fra le personalità, ma anche sul piano semantico dei dettagli. I guanti che usano i protagonisti, ad esempio, si richiamano inevitabilmente: da quelli lavorati e morbidi, che gli indiani donano a Rose quando concede loro il pellame del ranch, a quelli indossati da Peter che studia per diventare medico, mentre Phil di indossare i guanti non vuole saperne nemmeno nel castrare i bovini (lo fa a mani nude).

Finché la scena più coesa, più colma di elettricità arriva poco prima del finale, quando Phil e Peter scoprono le carte in un dialogo teso e rarefatto, il cui senso è affidato alla condivisione di una sigaretta.

Benedict Cumberbatch torvo e inquietante domina su un cast perfettamente amalgamato. L’australiana Ari Wegner cura la fotografia ben dosando le luci sui volti dei quattro protagonisti.

Alla prima mondiale in Mostra, a Venezia, qualcuno l’ha trovato sfilacciato. The Power of the Dog, invece, è un western dall’insolita consistenza visiva e percettiva. Come spesso accade quando dirige la Campion, a suo modo sorprendentemente poetico.

The Power of the Dog



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