Kenzo Mori, un detective giapponese, viene spedito a Londra per rintracciare il fratello, membro della Yakuza, che si finge morto perché (forse) colpevole di aver ammazzato un gangster e innescato una sanguinosa lotta fra bande: l’arrivo nella metropoli inglese sarà tanto destabilizzante quanto foriero di nuovi incontri, avventure e, forse, una nuova vita.

Oh, cosa abbiamo qui? Dopo Chernobyl, un’altra MAGNIFICA miniserie BBC+Netflix, che riesce a prendere il meglio da entrambi i produttori. Da un lato il rigore formale e la perfezione stilistica degli inglesi, dall’altra il coraggio e l’incoscienza dei nuovi padroni della serialità americana e mondiale, che tra un algoritmo e l’altro, riescono ancora a mostrarsi anarchici, proponendo una serie parlata per metà in giapponese e che vede come protagonisti tanti strangers in a stranger land.

Giri/Haji inizia come un classico Yakuza-movie, ma ben presto si trasforma in un curioso e riuscito ibrido di almeno una mezza dozzina di generi diversi, un tripudio di contaminazioni che mescola dramma familiare, slice-of-life, noir, action, thriller e persino commedia, visto che in molte situazioni si ride (a denti stretti).

Un lavoro enorme, il principale motivo per dedicare alla serie le otto ore richieste per portarla a termine, è stato fatto sulla caratterizzazione dei personaggi. Anche il meno importante, per non dire la semplice comparsa, ha un ruolo e una funzione ben precisa e tutti sono cesellati con una pazienza certosina, si evolvono dalla prima all’ultima puntata, recitando dialoghi tanto semplici e credibili quanto, a loro modo, brillanti e memorabili. La bizzarra e spesso imbarazzante ironia della poliziotta scozzese Sarah, la vena caustica del rent-boy gay di origini nipponiche Rodney, i silenzi della figlia di Mori, Taki, lo spleen baudeleriano in cui vivono immersi il protagonista e il fratello, l’imprevedibile e pragmatico “femminismo” della vecchia madre, entreranno subito e per sempre nel cuore degli spettatori.

Tutto funziona a meraviglia in Giri/Haji: attori perfetti (ancorchè in larga parte sconosciuti al grande pubblico), ritmo serrato, con un colpo di scena dietro l’altro (e tutti coerenti e credibili), regia eccelsa, che svaria tra inserti animati, intere puntate dedicate ai flashback (il quarto episodio va dritto nella storia della televisione), splitscreen e una sottile, amara e amabile ironia che pervade il tutto. Se volete guardare una serie in questo inizio di anno e di decennio, fate sia questa.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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