L’immagine dell’opera si profila attraente e sconcertante come solo un idolo eretico sa essere. Gli apologeti ortodossi accorrono assieme agli eresiarchi, entrambi attratti dal ticchettio che li scuote fin dentro le ossa. L’aspetto è quello di un meccanismo di precisione, una colossale macchina di Anticitera, perfetta in ogni minima componente, che imita e allo stesso tempo stravolge gli stilemi della vecchia dottrina, trovando nuovi significati ai vecchi significanti, nuova carne per il vecchio scheletro. Ma che cos’è di preciso? Sì, insomma, cos’è che fa, e come lo fa?

Osserviamolo più da vicino. 

Attenti alla testa.


Scomporre Superman, ridurlo in pezzi sempre più piccoli, riscriverne la vita per capire come funziona e, attraverso questo procedimento, comprendere il multiverso. Non va. Annulla, riprova, tralascia. 

Ora l’universo perde colpi, scivola rapidamente verso una singolarità che ammette solo due possibili esiti, entrambi piuttosto drammatici. Niente, ancora non ci siamo: rimettiamo insieme il tutto. Annulla, riprova, tralascia… elimina? 

Non so voi, ma tutto questo smontare e rimontare mi ha fatto venire il mal di testa. Allora perché non facciamo un passo indietro, giusto per rimettere in ordine le idee? Vediamo un po’: l’ultima volta che avevo visto i miei amici in maschera era il 1985 e tutto andava alla grande. Certo, i tre milioni di morti e gli altrettanti feriti e/o impazziti per colpa dell’invasione aliena fake non sono una cosa da prendere alla leggera, ma se non altro era stata evitata una catastrofe ben più grande, no? Ozymandias stava godendosi il suo trionfo, mentre il Dottor Manhattan lasciava senza troppe remore il suo universo, ma non prima di aver vaporizzato Rorschach. Povero diavolo, troppo inflessibile per quelle circostanze, troppo “bianco e nero” per quel mondo fatto di sfumature. Tutti gli altri, ricorderete, concordano che la scelta migliore sarebbe stata quella di mantenere il segreto su quanto era accaduto. Nessuno però aveva fatto i conti con una cosa, un piccolo, appiccicoso, dettaglio: un diario. 

Li ritrovo nel 1992 e le cose vanno decisamente peggio. La verità è venuta a galla, il mondo va a rotoli, l’Unione Europea è riuscita a dissolversi, la Russia muove il suo esercito in Polonia, mentre in America la folla in tumulto ha individuato il colpevole di tutto il casino. Proprio lui: Ozy, che in questi sette anni sembra non essere cambiato affatto, eccetto che per il tumore (ahem). Per il resto è il solito stronzo megalomane con la sindrome dell’eroe. Adesso è tutto preso con un nuovo progetto per salvare il mondo – ci risiamo – con il coinvolgimento del caro vecchio Dottor Manhattan – che da sette anni non si è fatto più sentire. Un’impresa forse troppo difficile e arzigogolata persino per l’uomo più furbo del mondo, anche se poi, a conti fatti, una scorribanda transdimensionale non è tanto diversa da una battuta di pesca al largo. Partire preparati è la cosa più importante. 

Cosa serve: 

  • una nave – c’è: Cleto;
  • una bussola: ecco Bubastis II;
  • un’esca (due sono meglio): Mime e Marionette, due new entry dell’universo watchmeniano, spacciate per vecchie conoscenze;
  • un aiutante: Rorschach (stupiti del suo “ritorno”? Dovreste vedere l’altro).

Va detto comunque che, anche con tutte queste cose a disposizione, non sarà certo un viaggio breve e privo di rischi, anzi. Ciò che attende di là è una dimensione non meno disastrata di quella di Watchmen. Basti pensare che nemmeno Manhattan, che aveva lasciato la sua Terra d’origine per una meno complessa, è in grado di barcamenarsi in questo mondo folle ed è bloccato davanti a un dilemma che non riesce a risolvere: nella busta numero uno c’è la distruzione dell’universo, nella busta numero due la morte del suo paladino più valoroso. Per non parlare delle difficoltà di Ozymandias nel ritrovare il vecchio doc Osterman. E che dire del nuovo Rorschach? Ingannato, scombussolato, manipolato, incapace di decifrare gli eventi che lo riguardano. Sono tanti i punti ciechi che accomunano le storie dei protagonisti che risulta impossibile ignorare il disegno che ne emerge se proviamo ad unirli. “You see what you want to see” è la frase che ricorre più spesso nell’opera e, nella sua don chisciottesca assurdità, esplica alla perfezione l’oblio che avviluppa tutti i personaggi della serie. A ciascuno di loro, per l’appunto, manca un pezzo del puzzle e, per questo motivo, nessuno riesce ad avere un quadro completo della propria situazione.

E così, persino l’onniveggente Dottor Manhattan è incapace di vedere l’esito finale della sua vicenda e non riesce a pensare a una soluzione migliore di complicare ancora di più le cose, armeggiando con il passato di Superman e degli altri eroi; Rorschach si ritrova a indossare la maschera dell’uomo che ha rovinato la sua famiglia; Mime e Marionette finiscono invischiati in un piano pazzesco e pazzoide pur di ritrovare loro figlio; il mondo intero – il cui equilibrio geopolitico è appeso a un ciuffo – brancola in una nebbia fatta di mezze verità, rivelazioni pilotate e odio fomentato e manovrato. Oblio che si riflette nella “fiction nella fiction”, dove anche il detective privato Carver Colman si trova davanti a un vicolo cieco – così come l’attore che lo interpreta è stritolato in una storia di segreti e ricatti. I personaggi si ritrovano in questo modo disposti come dei pezzi su una scacchiera, ciascuno con il proprio percorso fatto di movimenti obbligati in un labirinto di muri invisibili eppure presenti e tangibili. Oppure, se preferite, stanno come burattini su un piccolo palcoscenico, ignari dei fili che li muovono. Beh, tranne Manhattan, ovviamente, che già in passato aveva rivelato a Silk Spectre di vedere se stesso come una marionetta al pari degli altri, con la sola differenza che lui i fili è in grado di vederli. Si tratta per l’appunto di un’analogia già presente in Watchmen, che qui però viene rielaborata in qualcosa di diverso, qualcosa che permette all’oltreuomo blu di superare la sua visione deterministica dell’esistenza e di tagliare i propri fili.

In realtà, non sarebbe giusto equiparare questo processo a un perentorio e netto colpo di cesoia. La verità infatti è che attraverso un processo di decostruzione e ricostruzione basato sostanzialmente sul trial and error, ovvero osservando/smontando/rimontando la storia del kriptoniano, Manhattan comprende la sua natura di forza inerte, ma la sua visione rimane ancora cristallizzata in un’impostazione dicotomica di eroi contro villain, la cui conseguenza non può che essere il dilemma che lo assilla per tutta la serie. Tuttavia, è solo grazie all’incontro con Clark Kent che il processo di crescita può giungere a compimento. Superman mostra a Manhattan che esiste sempre una “terza opzione”, anche se si nasconde alla vista. Grazie a questo insegnamento Manhattan comprende che il suo mondo di provenienza merita qualcosa di più di un superuomo bloccato nel “complesso di inerzia”, troppo preoccupato per il futuro per concentrarsi sul presente. Ed è a questo punto che avviene una sorta di “miracolo termodinamico” dove la serie HBO di Damon Lindelof e Doomsday Clock arrivano a sfiorarsi.

In entrambe le opere emerge infatti la volontà del Dottor Manhattan di lasciare in eredità i propri poteri a qualcuno di (più) meritevole. Solo che Doomsday Clock affronta l’argomento in una maniera meno naif di una trasmigrazione à la coque. Nelle tavole di Gary Frank, vediamo un Dottor Manhattan che torna a sintonizzarsi con la sua umanità e smette di essere uno strumento nelle mani ad altri (o del destino). Ora può immaginare un’alternativa alla catastrofe e finalmente agire, donando ad entrambi gli universi la serenità che non hanno mai conosciuto – magari anche solo per poco – e al suo mondo una guida che possa ispirare l’umanità più di quanto lui potrebbe mai fare. Infine, regala a se stesso la felicità che fino a questo momento aveva solo ipotizzato, dopodiché si dissolve, tra le pieghe del suo ultimo retcon.

Con Doomsday Clock, Geoff Johns fissa un punto. Non uno d’arrivo, né uno di partenza, ma uno dove convergono tutti gli indizi disseminati negli anni, tra le pagine e le tavole di diverse pubblicazioni, e, una volta riuniti, questi elementi scatenano una reazione sublime nella sua perfezione, per poi separarsi. Il risultato di questa reazione è che, per quante crisi scuoteranno le terre infinite, per quanti ghiribizzi rifondativi sconvolgeranno i mondi dei nostri eroi, c’è un elemento che non sarà mai cancellato e questo elemento è la speranza incarnata – e ispirata – da Superman, che, come una costante fisica, si oppone al continuo rivolgimento entropico degli eventi. Il procedimento che ha portato a questo risultato è quello di un cervellotico quanto preciso gioco di imitazioni e capovolgimenti. Il meccanismo di Johns si muove e mette in scena il tutto con una precisione impeccabile, dove a ogni personaggio viene concesso il tempo necessario a lasciare un segno indelebile.

Così, per esempio, da un lato abbiamo il nuovo Rorschach, che ha tutto il tempo di crescere, respirare e compiere il suo arco narrativo (più che altro una sinusoide), cadere nell’abisso, rialzarsi e fare la sua parte nella vicenda, all’altro estremo invece troviamo tutti quei personaggi minori, praticamente delle comparse, che in due vignette e un balloon aprono uno squarcio su tutto un orizzonte narrativo che non trova sfogo né nel fumetto né nel corollario paratestuale, ma che si sviluppa in potenza nel cervello del lettore. Come il Cappellaio Matto che, in una scena pietosissima, implora Batman di non riportarlo ad Arkham, rivelando tutto un background di sofferenze psichiche e fisiche in un sistema penitenziario lontano anni luce dal suo scopo riabilitativo.

Abbiamo un Edward Nigma che fa appena in tempo a rivelare tutta la sua invidia (verde) e frustrazione nei confronti del primo attore per eccellenza, ossia il Joker, prima di farsi sparare in un ginocchio. E come questi due, ci sarebbero moltissimi altri esempi da citare, ma sarebbe un errore considerare queste microstorie come oggetti fini a se stessi. Le vicissitudini dei personaggi più bislacchi dei fumetti (ahhh, la DC), grazie a un meticoloso gioco di incastri, finiscono infatti per formare quell’incasinatissimo mosaico che costituisce l’ambientazione agli eventi principali.

Un ultimo esempio del perfetto formalismo di Doomsday Clock è dato dalla maniera in cui l’autore ha inserito la fiction nella fiction del detective privato Nathaniel Dusk. Come accadeva con I Racconti del Vascello Nero in Watchmen, il film The Adjournment risuona delle vibrazioni della trama in cui è “incastonato”, ma con l’aggiunta, in questo caso, della storia privata di Carver Colman (l’attore protagonista), la cui vita tormentata aggiunge un ulteriore strato nella narrazione che va ad intrecciarsi al flusso diegetico principale. In altre parole, The Adjournment dialoga con Doomsday Clock così come questo riflette le assurdità della realtà di tutti i giorni.

In definitiva, trovo sia questo il trucco più sorprendente del fumetto di Johns: dietro una superficialità apparente, dove l’attenzione sembra tutta concentrata sullo svolgimento della propria trama, si intravedono i riflessi di un mondo che, a conti fatti, non è poi molto diverso dal nostro. E a chi obietta che qui nessuno se ne va in giro mascherato in maniera assurda, io domando quante persone conosca nella vita pubblica che mostrano la loro vera faccia. A mancare non sono tanto gli uomini in maschera, quanto piuttosto qualcuno in grado di ispirare la speranza nel fatto che quello che non funziona nel mondo si possa aggiustare senza dover scegliere tra la distruzione del nemico e quella del mondo intero. Sì, insomma, che fine ha fatto la busta numero tre?



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